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Andrea Bairati, Confindustria: “Non bastano gli e-book: per fare la scuola digitale serve l’apprendimento attivo”

Il direttore dell’area Innovazione e Education: “I nostri ragazzi hanno imparato da soli, ma gli adulti sono degli ‘immigrati’ delle tecnologie: nelle classi è importante potenziare le capacità logiche con il coding, ma anche con la musica. Penso a percorsi di apprendimento per gli studenti anche nei luoghi di lavoro”

Pubblicato il 15 Dic 2014

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“Le competenze digitali sono ormai competenze abilitanti fondamentali. Il digitale deve essere una strumentalità che viene data per scontata, tenendo conto che, come dicono gli inglesi, esistono i nativi digitali, che sono giovani o giovanissimi, mentre noi tutti siamo immigrati digitali, e facciamo più fatica”. A parlare è Andrea Bairati, direttore dell’area Innovazione e Education di Confindustria.
Bairati, cosa sta facendo la scuola italiana sulle competenze digitali?
La nostra non è una scuola digitale. I nostri ragazzi sono “nativi digitali” ma non perché la suola li abbia messi elle condizioni di potenziare le loro competenze, si sono fatti da sé. Per questo noi nelle 100 proposte che abbiamo fatto al Governo sull’istruzione abbiamo detto che il passaggio da un modello passivo a un modello attivo e partecipato, in cui l’educazione è un processo di interazione, non può prescindere dal fatto che la scuola diventi digitale. Non vuol dire solo adottare libri o lavagne elettroniche, ma ripensare il sistema. Sono favorevole a qualsiasi insegnamento che potenzi le funzioni e le capacità logiche del ragazzo: la chimica, la musica, come anche il coding, sono linguaggi simbolici: tutte strade che portano al potenziamento del lato logico-simbolico dell’apprendimento. Il problema è soprattutto nel metodo.
Quanto può essere utile la collaborazione scuola-impresa?
L’interazione tra mondo del lavoro e dell’istruzione, in ogni suo aspetto, a iniziare dall’innovazione, dovrebbe concentrarsi su un programma strutturato che consenta ai ragazzi di passare un po’ del loro tempo non in un’aula ma in un luogo di lavoro, per imparare cose che sui banchi non si imparano. I luoghi fisici sono un aspetto ancora trascurato, ma non si fa la scuola 3.0 se non costruiremo una nuova ergonomia dell’istruzione.
Qual è il ruolo delle istituzioni per favorire queste innovazioni?
Molto della “buona scuola c’è già”, sparso sui territori italiani, e nato spesso dalla collaborazione con associazioni di categoria sul territorio. Non c’è nulla da inventare, ma c’è da cucire in un unico abito le mille voci sperimentali di successo che già esistono. In Italia siamo bravi sulla qualità concentrata, ma meno nel mettere a sistema. Mi aspetto dalla “buona scuola” e dal Governo il compito complesso di “sarto” di qualità.
Avete una strategia e progetti già in cantiere con gli atenei?
Stiamo lavorando su alcuni terreni di collaborazione con il nostro mondo che vorremmo portare ad esempio. Soluzioni piccole ma che risolvono un problema. Primo terreno è quello della sanità, dove l’It è una sfida fantastica. Il secondo terreno, anche questo con grandi potenzialità, è quello del turismo.
Degli ingegneri italiani si dice un gran bene, ma anche che sono pochi. Perché?
Il tema è la programmazione dell’offerta universitaria. Nel campo Science, mathematics, engineering e technology la qualità in uscita è molto buona, ma i laureati sono pochi. Un esempio lampante è quello della cantieristica, un settore di grande importanza per l’Italia, in cui abbiamo realtà leader di settore nel mondo. L’ingegneria cantieristica è importantissima per quest’industria, e in Italia ci sono tre cattedre che rischiano di scomparire: quei 100 ingegneri navali che escono tutti gli anni sono una ricchezza nazionale, ma se non stiamo attenti dovremo “importare” ingegneri dal resto del mondo. Per questo, soprattutto nelle nuove tecnologie, abbiamo bisogno di avere un monitor “intelligente” e utile alla programmazione. Non dobbiamo sapere quanti manutentori verranno assorbiti sul tal mercato locale del lavoro, ma abbiamo bisogno di organizzare “in grande” la nostra programmazione universitaria, con le realtà che sanno dove andrà il mondo della tecnologia e possono tracciare un macroquadro attendibile. Se c’è un contributo molto importane che possiamo dare al paese e alle istituzioni, è “leggere” i grandi tracciati della domanda.
C’è un percorso possibile, per i lavoratori specializzati che hanno perso il lavoro, per riqualificarsi nel campo del digitale?
I processi di conversione professionale sono difficili, perché spesso richiedono salti e non semplici aggiornamenti. E’ una materia da maneggiare con cautela, perché coinvolge il destino delle persone. Ma il digitale è un giacimento potenziale enorme: essendo un fattore abilitante orizzontale ha mille sfumature e mille gradazioni. Se da un lato non ci si inventa progettisti o designer di sistema, è anche vero che più si va verso l’applicativo più possono aprirsi spazi. Con la Luiss abbiamo realizzato un esperimento nell’incubatore della Stazione Termini a Roma, una sorta di “alleanza tra generazioni”: dirigenti che hanno perso il lavoro incontrano le startup: è la collaborazione tra la competenza manageriale matura e l’entusiasmo di chi ha avuto una buona idea. Il digitale è il sacerdote che celebra questo matrimonio, la modalità con cui giovani e adulti dialogano. E l’inizio mi pare per il momento già molto promettente.

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