Il canone delle frequenze è finito in un vicolo cieco. In un calderone di confusioni e stop and go che hanno portato di fatto allo stallo, con meno di due settimane a disposizione per sbrogliare la matassa. A far precipitare la situazione è stato ieri sera il pronunciamento degli uffici della commissione Bilancio del Senato, che ha dichiarato inammissibile l’emendamento del Governo per estendere in via provvisoria il vecchio regime di pagamento ancora per un anno. 365 giorni di tempo che sarebbero stati utili al Mise per modificare la legge Monti e, a cascata, imporre la modifica della delibera varata dal Consiglio Agcom il 30 settembre.
Le norme Agcom ridisegnano i criteri di pagamento per l’uso delle frequenze radiotelevisive, spostando il baricentro dalle emittenti (che fino a oggi pagavano l’1% del fatturato) al valore delle frequenze utilizzate, e quindi dalle imprese editoriali a quelle tecnologiche (gli operatori di rete) che detengono i diritti d’uso delle frequenze.
A oggi la posizione più scomoda è quella del Mise, che – se nel frattempo non succederà nient’altro – sarà chiamato a produrre un decreto ministeriale per l’applicazione dei contributi secondo le nuove norme. Due gli scenari: se il Mise desse applicazione alle norme Agcom così come sono, andrebbe a infrangere i principi della legge Monti del 12 aprile 2012, che prevede per il nuovo regime l’invarianza di gettito, il fatto cioè che non debbano verificarsi minori introiti per lo stato. Secondo le nuove norme Agcom, infatti, nel 2014 la Rai risparmierebbe circa 23 milioni di euro, e Mediaset 17,2 milioni, per un ammontare complessivo di minori introiti di circa 40 milioni di euro. Estendendo ai primi quattro anni il regime di pagamenti, i minori introiti per lo Stato sarebbero di quasi 105 milioni, e di 131 milioni nell’arco 2014-1021.
Una situazione che però potrebbe portare a un intervento della Corte dei Conti che potrebbe chiedere conto ad Agcom del danno all’erario e del mancato equilibrio di bilancio che si verificherebbe con l’applicazione della delibera.
A questo punto il Mise potrebbe anche decidere di entrare con più decisione nel merito della questione, e stabilire di non rispettare la gradualità prevista da Agcom, e partire subito dai contributi “a regime”. Ma questo potrebbe provocare ricorsi amministrativi a cascata dagli operatori, e aprire quindi uno spinoso fronte di contenzioso. L’applicazione a regime sarebbe tra l’atro fortemente penalizzante per gli operatori indipendenti, e favorevole agli operatori integrati. Un soggetto come Persidera (Telecom Italia-L’Espresso) si troverebbe a pagare da un giorno all’altro circa 15 milioni su un fatturato annuo di 100 euro.
Una soluzione d’emergenza potrebbe essere quella di far rientrare la questione nell’orbita del maxiemendamento alla legge di stabilità. Una eventualità ritenuta però difficilmente praticabile, soprattutto dopo il blocco dell’emendamento in commissione Bilancio del Senato.
Sullo sfondo rimane la questione della legge 488 del 1999, quella che stabilisce il pagamento delle frequenze a carico delle aziende radio Tv in misura dell’1% del loro fatturato, non è ancora mai stata ufficialmente abrogata. Da una parte c’è chi dice, come nelle scorse settimane il commissario Agcom Antonio Nicita, che “c’è un grande equivoco da sciogliere: il nuovo contributo pagato dagli operatori di rete è interamente sostitutivo della vecchia legge 488 o costituisce solo una sua parte? Dalla risoluzione di questo nodo normativo dipende la soluzione del danno finanziario per lo Stato”. Dall’altra c’è chi dice, come il magistrato ed ex commissario Agcom Nicola D’Angelo, che la 488 è “implicitamente abrogata” dall’entrata in vigore della legge Monti e dalla successiva delibera Agcom.