Dopo il successo planetario, arrivano i guai per Uber. Il servizio di ride sharing che in molte metropoli compete con i taxi è attivo ormai in 53 paesi del mondo ed è valutato circa 40 miliardi di dollari. Ci sono luoghi in cui tuttavia il servizio è osteggiato: da Parigi, passando per l’India alla Cina. Ma anche negli Stati Uniti.
All’ira dei tassisti si è aggiunta l’ostilità delle autorità politiche: le autorità di Pechino, ad esempio, hanno fatto sapere che presto arriverà una stretta : è probabile che finiranno fuori legge non solo gli autisti di Uber, ma anche quelli di altre catene di ride sharing, compresa quella che fa capo ad Alibaba, la grande piattaforma cinese di commercio elettronico. A Città de Capo in Sud Africa invece, sono state sospese 33 licenze a veicoli della rete Uber.
A New York la situazione è diversa: a rischio non è il diritto di Uber di offrire un servizio concorrenziale rispetto ai taxi gialli. Fatto sta che cinque delle sei basi cittadine della società digitale sono state poste sotto sequestro dalla Taxi&Limousine commission, perché il fondatore Travis Kalanick si è rifiutato di fornire alle autorità municipali tutti i dati sul traffico generato dalle sue applicazioni.
In luce c’è un aspetto paradossale: finita nel mirino dei regolatori della privacy perché accumula una grande quantità di dati sui suoi clienti, Uber ha rifiutato di consegnare le info sul suo traffico adducendo argomenti dello stesso tipo: violazione del diritto alla riservatezza garantito dalla Costituzione americana.