Euro e fiscal compact, un freno per le Tlc italiane

Maurizio Matteo Dècina: “L’impossibilità di politiche fiscali espansive per stimolare l’innovazione tecnologica è stata vincolata dai parametri di Maastricht. Serve aprire una riflessione su un possibile intervento pubblico a salvaguardia degli investimenti”

Pubblicato il 09 Gen 2015

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In questi mesi di crisi politica economica e sociale, con i nuovi dati Istat sull’occupazione generale salita in pochi mesi dal 12,5% al 13,7% (44% disoccupazione giovanile), si discute sempre più di un ritorno alla moneta nazionale. Nel nostro settore i dati della commissione europea (pubblicati dal Corriere delle Comunicazioni del 22 Luglio 2014) non sono certo confortanti: agli ultimi posti per penetrazione di banda; e con un saldo occupazionale di settore negativo ed in forte peggioramento. Ma a sorprendere sono i dati sulla velocità media di banda pubblicati dal sito netindex.com: l’Italia ha in pratica la stessa velocità media dei Paesi africani (grafici allegati). Il sistema di rilevazione questa volta non è a campione ma automatico, dunque ineccepibile.

Noto che dal web continuano ad arrivare proposte interessanti di gruppi di economisti indipendenti per cercare soluzioni a questa crisi. Ho rilevato infatti una fervente attività di analisi economica e statistica da parte di numerosissimi gruppi di laureati in economia ed ingegneria che attraverso lo strumento del web hanno elaborato studi, scenari, simulazioni e rapporti dettagliati. In pratica sostituendosi ai centri di studio tradizionali. Il più completo è scenarieconomici.it. Non mettendo in discussione l’autorevolezza delle fonti tradizionali mi ha colpito questa capacità di interazione tra professionisti di tutta Italia. Alcuni studi simulativi, veramente ben fatti e con tanto di formule macroeconomiche complesse, sono stati realizzati con la collaborazione di migliaia e migliaia di professionisti a testimonianza che il web 2.0 non è solo divertimento e intrattenimento ma anche una sana tecnocrazia democratica.

La lettura di questi studi mi ha balenato l’idea che il tracollo del settore delle telecomunicazioni italiane abbia avuto inizio proprio in corrispondenza con l’entrata nella zona euro. Gli indizi ci sarebbero tutti. Prima del 2000 il mondo delle telecomunicazioni italiano era riconosciuto universalmente come leader europeo per tecnologie ed innovazione. Non mi scorderò mai di ripetere con orgoglio, a costo di sembrare ridicolo, che l’azienda madre contava 120.000 dipendenti e 30 partecipate estere ed un debito antecedente all’Opa di Colaninno pari al 20% del fatturato. Numeri invidiati da tutti. Nel corso degli anni 2000 si sono verificati poi tutta una serie di eventi dannosi per l’ecosostema del settore ed in generale per il Paese, riconducibili all’impossibilità di uno Stato sovrano di controllare la sua economia.

Il settore delle Telecomunicazioni, liberalizzato agli inizi degli anni 90, con l’apice della privatizzazione di Telecom del 97, si è in pratica ritrovato a fare i conti con un sistema politico ed economico molto distinto da quello caratterizzante gli anni 70, 80 e anche in parte 90. Le citate operazioni a debito non hanno fatto altro che arricchire il sistema bancario a danno di occupati, piccoli azionisti e consumatori. I governi non sono mai intervenuti in materia di politiche di incentivo tecnologico od innovativo per non intaccare i parametri del deficit lasciando libero il mercato. Ma libero da cosa? Dai predatori che si sono susseguiti nel controllo di numerose aziende sane oggi in default? I nostri politici non si sono neanche posti il problema di cosa stesse succedendo a fronte di numerose interrogazioni parlamentari di pochi coraggiosi deputati. E proprio nel bel mezzo della festa sono apparsi gli Over the Top statunitensi che da veri e propri outsider hanno gradualmente eroso i fatturati di tutte le aziende di telefonia tradizionali comportando notevoli squilibri sul lato occupazionale, in uno scenario regolatorio chiaramente favorevole. Ma elenchiamo ad uno ad uno gli episodi riconducibili alla moneta unica che hanno avuto ripercussioni sul settore delle Tlc e di riflesso sull’assenza di una adeguata infrastruttura in larga banda.

La frettolosa privatizzazione di Telecom con il cosidetto nocciolino duro e l’esclusione dei piccoli azionisti non fu presa anche per raccogliere fondi per l’entrata nella zona euro? L’Opa del 1999 non rispondeva al disegno di note banche d’affari aglosassoni che avrebbero sperimentato per la prima volta su larga scala il leverage buyout? Strumento che avrebbe indebolito le aziende italiane a favore di investitori esteri? In uno scenario in cui l’economia finanziaria si avviava verso la completa e perfetta globalizzazione dei capitali? Una moneta debole rispetto ad un supereuro non avrebbe consentito introiti doppi da tutte quelle partecipate estere che oggi sono decollate? Forse non sarebbero state vendute proprio tutte. I boiardi di Stato avrebbero mai autorizzato una operazione a debito come l’Opa su Tim? Pensiamo a cosa sarebbe successo se i 14 miliardi dell’Opa del 2005 fossero stati investiti in larga banda a 700 euro unitarie per un mix Fttc-Ftth: oggi avremmo 20 milioni di abitazioni cablate a 30 e 100 mega. L’impossibilità di politiche fiscali espansive per stimolare l’innovazione tecnologica non è stata forse vincolata dai parametri di Mastricht? Per citare un esempio più attuale, il Fiscal Compact non ha avuto forse effetti negativi sulla possibile entrata della Cdp nella società della rete? E cosa dire dell’assenza di regolazione degli Over the Top, compresi i contenziosi con il fisco italiano? Non si ha la sensazione che con l’eurozona si stiano trascurando alcune problematiche di base dell’economia italiana?

Sono tutti quesiti che non vogliono dimostrare la bontà di una strategia di uscita, basti pensare ad esempio che imprese come Telefonica negli anni 2000 hanno fatto faville, ma che in parte pongono seri problemi sul sistema bancario attuale e su di un immediato intervento pubblico a salvaguardia degli investimenti in innovazione.

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