MERCATO TV

Canone frequenze, per le Tv prima tranche entro gennaio

Agli operatori si chiederà di pagare “in acconto” una percentuale del canone versato lo scorso anno in attesa della revisione della legge Passera-Monti. Bypassate le norme Agcom. Lo schema di decreto del Mise è ora al vaglio della Corte dei Conti

Pubblicato il 09 Gen 2015

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Un “acconto” calcolato su una percentuale di quanto pagato nel 2014, da versare entro la fine di gennaio, in attesa che venga modificate la legge Monti e siamo messe nero su bianco le nuove norme per il pagamento allo Stato del canone sulle frequenze Tv. E’ la soluzione messa a punto con uno schema di decreto dal ministero dello Sviluppo economico per superare l’applicazione della delibera Agcom che aveva creato trambusto alla fine del 2014, e uscire dal vicolo cieco in cui la questione era finita dopo che non era stato possibile inserire le nuove norme nella legge di stabilità con un emendamento.

La voce ha iniziato a circolare nelle ultime ore, ed è stata rilanciata da Italia oggi, anche se dal ministero non vanno oltre il “no comment”, e non danno conferma della percentuale dell’acconto che il quotidiano anticipa nel 40%. Lo schema di decreto ministeriale, che dalla fine di dicembre è in attesa di un parere dalla Corte dei Conti, sarà ufficializzata non appena avrà ricevuto il nulla osta dalla magistratura contabile.

A far precipitare la situazione era stato a metà dicembre il pronunciamento degli uffici della commissione Bilancio del Senato, che aveva dichiarato inammissibile l’emendamento del Governo per estendere in via provvisoria il vecchio regime di pagamento ancora per un anno. 365 giorni di tempo che sarebbero stati utili al Mise per modificare la legge Monti e, a cascata, imporre la modifica della delibera varata dal Consiglio Agcom il 30 settembre. Una prospettiva che ora torna in ballo grazie alla soluzione dell’acconto, e che apre una nuova finestra di un anno per definire definitivamente le regole.

Le norme Agcom che sono finite nell’occhio del ciclone ridisegnano i criteri di pagamento per l’uso delle frequenze radiotelevisive, spostando il baricentro dalle emittenti (che fino a oggi pagavano l’1% del fatturato) al valore delle frequenze utilizzate, e quindi dalle imprese editoriali a quelle tecnologiche (gli operatori di rete) che detengono i diritti d’uso delle frequenze.

Un regolamento, quello dell’authority, che aveva messo il Mise in una posizione scomoda, perché prefigurava due scenari ugualmente poco praticabili: se il Mise avesse dato applicazione alle norme Agcom così come sono, avrebbe infranto i principi della legge Monti del 12 aprile 2012, che prevede per il nuovo regime l’invarianza di gettito, il fatto cioè che non debbano verificarsi minori introiti per lo Stato. Secondo le nuove norme Agcom, infatti, nel 2014 la Rai avrebbe risparmiato circa 23 milioni di euro, e Mediaset 17,2 milioni, per un ammontare complessivo di minori introiti di circa 40 milioni di euro. Estendendo ai primi quattro anni il regime di pagamenti, i minori introiti per lo Stato sarebbero stati di quasi 105 milioni, e di 131 milioni nell’arco 2014-2021. Ma se anche il Mise avesse deciso di entrare con più decisione nel merito della questione, e stabilire di non rispettare la gradualità suggerita da Agcom, e partire subito dai contributi “a regime”, questo avrebbe potuto provocare ricorsi amministrativi a cascata dagli operatori, e aprire quindi uno spinoso fronte di contenzioso. L’applicazione a regime sarebbe stata tra l’atro fortemente penalizzante per gli operatori indipendenti, e favorevole agli operatori integrati: un soggetto come Persidera (Telecom Italia-L’Espresso), solo a titolo di esempio, si troverebbe a pagare da un giorno all’altro circa 15 milioni su un fatturato annuo di 100 milioni di euro.

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