TECNOLOGIA & GOVERNANCE

The Responsive City: perché l’Italia la frena?

Negli Usa si studia e si cerca di applicare le risorse tecnologiche e la loro “intelligenza” come una fondamentale risorsa per l’azione dei funzionari pubblici, del personale di governo e dei leader civici. Nel nostro Paese, tranne alcune lodevoli eccezioni, siamo molto lontani se non addirittura refrattari al tema

Pubblicato il 19 Gen 2015

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Nel recente libro “The Responsive City: Engaging Communities Through Data-Smart Governance highlights the promising intersection” di Stephen Goldsmith e Susan Crawford (due professori americani esperti di internet e di nuovi modelli di amministrazione) si esamina lo stato del cosiddetto governo urbano negli Stati Uniti. Gli autori sostengono che mai, come nell’ultimo secolo, vi è stata una così forte necessità di cambiare il modo in cui si amministrano le città e le comunità territoriali. Le amministrazioni locali sono infatti sempre più impegnate in prima linea a risolvere i problemi reali e a fornire i servizi essenziali con risorse limitate.

Tuttavia, il modo tradizionale in cui i governi locali operano ha creato un forte divario tra opportunità e risultati. L’adozione diffusa delle nuove tecnologie tra i cittadini ha creato un cambiamento epocale delle loro aspettative cui non sono corrisposte reali novità nel modo di amministrare. Eppure questi nuovi strumenti consentirebbero a chi ha la responsabilità dei governi locali di esplorare nuove opportunità, mettendo da parte burocrazia ed inefficienza e ripristinando quel clima di fiducia verso le stesse istituzioni sempre più in crisi. Secondo gli autori, la “Responsive City”, cioè la città disponibile, può costituire una formula che consente invece di coinvolgere le comunità attraverso la cosiddetta “smart governance”. In buona sostanza si tratta dell’uso delle tecnologie informatiche e di internet che rende oggi possibile l’intersezione di un gran numero di dati, anche molto dettagliati, consentendo all’azione di governo una efficace ed economica risposta ai bisogni della cittadinanza. Il libro analizza alcuni casi nei quali, grazie a quelli che loro chiamano “pionieri comunali”, ci sono state storie di successo di questa nuova formula di amministrazione. Da Boston a Chicago a New York e altro ancora.

Negli Usa insomma si studia e si cerca di applicare le risorse tecnologiche e la loro “intelligenza” come una fondamentale risorsa per l’azione dei funzionari pubblici, del personale di governo e dei leader civici. In Italia, tranne alcune lodevoli eccezioni, siamo molto lontani se non addirittura refrattari al tema. Le ragioni sono diverse. Innanzitutto, uno scarso senso della modernità conseguente, nel caso delle amministrazioni, ad una diffusa percezione formalistica degli strumenti giuridici. Tanti amministrativi e pochi ingegneri: questo potrebbe essere lo slogan che bene rappresenta la nostra condizione.

Il diritto da mezzo posto al servizio dei bisogni di relazione della società è diventato esso stesso il totem intorno al quale tutto gira. Amministrare dunque significa in primo luogo applicare regole formalistiche spesso superate dalle esigenze di vita di chi è amministrato. E questo sarebbe il meno se poi quelle stesse regole, grazie alla loro incoerenza, non fossero piegate all’interesse individuale. Le cronache degli ultimi giorni, da Roma in poi, segnalano come proprio nel governo territoriale ormai si annidano le peggiori manifestazioni dell’illegalità. “Smart governance” non vuol dire solo maggiore efficienza, ma anche tanta trasparenza in più ed è questo forse il vero motivo del nostro ritardo.

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