Quella delle smart city italiane è una partita che si deve ancora cominciare a giocarsi sul serio. Se le soluzioni tecnologiche, le applicazioni e i servizi innovativi legati a specifiche realtà urbane vengono annunciati sempre più frequentemente e con sempre maggiore enfasi, appare evidente che allo sviluppo di infrastrutture informatiche continua a non corrispondere il cambiamento culturale che poi dovrebbe essere la vera matrice dell’evoluzione delle nostre città. Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente.
Ora che sono stati finalmente sbloccati i fondi del Miur, 318 milioni (di cui 143 come contributo e il resto come credito agevolato), che dovrebbero essere erogati entro febbraio, rimane da capire in che modo i 32 vincitori del bando – che aspettano da febbraio 2013 – riusciranno a utilizzare le risorse per sviluppare progetti realmente integrati nel tessuto digitale della Penisola. Un paesaggio che al momento è configurato a macchia di leopardo o, per dirla con le parole del sindaco di Torino Piero Fassino, come un presepe di smart city. La strada da imboccare? “Bisogna puntare sulle multiutilities, a patto che smettano di fare le municipalizzate. I veri modelli di business però nasceranno solo quando i fornitori integreranno le proprie revenue all’interno delle offerte tecnologiche e avremo un ingaggio permanente di banche e assicurazioni”. È così che la vede Mario Calderini, presidente del Comitato tecnico delle comunità intelligenti dell’Agid, che spiega a CorCom i passaggi mancanti per la vera rivoluzione smart. Innanzitutto, per il docente del Politecnico di Milano, negli ultimi quattro-cinque anni è stato compiuto un grande sforzo sul lato dello sviluppo delle competenze e delle tecnologie, dando ampio spazio alla ricerca, ma si è trattato perlopiù di soluzioni precommerciali, prototipi, progetti ed esperimenti condotti su piccola scala. “È mancata in primo luogo la visione d’insieme: nessuna città italiana ha sviluppato un progetto integrato di smart city, con un reale impatto di valore per i cittadini. E poi non c’è stato il focus sulla materia prima, che è il dato. Nessuno ha ancora fatto gli sforzi necessari per raccogliere, organizzare e gestire i dati, consentendo agli operatori un processo spontaneo di scrittura delle soluzioni”.
Inutile dire che siamo lontani anni luce dall’esempio di Tel Aviv, dove 100mila cittadini (un quarto della popolazione) sono già stati dotati di una carta per i servizi grazie alla quale partecipano al programma Urban digital services. Lo scorso novembre la città israeliana è stata premiata allo Smart City Expo World Congress per la capacità del suo sistema di aggiornare gli utenti in tempo reale sui servizi offerti, permettendo loro un dialogo diretto con la PA attraverso la gestione totalmente digitale (e mobile) di richieste, pagamenti, certificati e interventi sul territorio. “Ma ci sono altri modelli a cui possiamo guardare su specifici topic, a partire da Amsterdam, Helsinki, Saint Louis”, precisa Calderini. “In Italia l’esperienza più interessante è senz’altro quella che riguarda Milano e la Lombardia in generale. Comune e Regione sono stati i primi a porsi il problema dell’integrazione dei dati, della loro strutturazione e dell’interoperabilità, creando protocolli e middleware capaci di far dialogare applicazioni eterogenee. Milano sta anche puntando sull’innovazione sociale, attraverso operazioni finanziarie e incubatori di imprese, che sono poi la linfa che dà corpo e calore alle tecnologie abilitanti. L’Expo? Senza dubbio è uno stimolo forte: l’area espositiva dovrà essere la smart city per eccellenza, e la città dovrà essere ponta ad accogliere un numero impressionante di visitatori, indirizzandoli attraverso servizi digitali. Però, secondo me, i progressi di Milano sono primariamente dovuti alla capacità di alcuni assessorati, che stanno lavorando molto bene”.
Per una buona parola spesa per il capoluogo lombardo, ce ne sono altre meno lusinghiere per due città che, dal punto di vista di Calderini erano partite bene ma che ultimamente hanno smarrito la bussola. Genova, che rappresenta la seconda area metropolitana per capillarità della fibra ottica (Metroweb ha installato 233 km di infrastruttura civile, 390 km di cavi in fibra ottica e 33 mila km di fibra singola, consentendo di connettere in banda ultra larga 20 sedi del Comune oltre agli info point dedicati ai turisti), “in effetti sembrava muoversi meglio di molte altre realtà, mentre dà ora l’impressione di essersi un po’ persa per strada. Va menzionato anche il tentativo che ha fatto Torino con la piattaforma Smile. Non lo definirei brillantissimo, ma costituisce in ogni caso un embrione per creare quell’integrazione di cui si ha bisogno”. Sono cinque i pilastri che reggono il progetto piemontese: energy, inclusion, integration, life&health e mobility a cavallo di piattaforme collaborative, e-government, processi di dematerializzazione e di erogazione di informazioni su viabilità e accessibilità al territorio. Ora Torino vuole allargare il processo ai 315 Comuni della cintura e presentare a breve un centinaio di progetti sul portale dell’Osservatorio Smart City dell’Anci, in modo da offrire delle best practice esportabili e replicabili anche su altre porzioni della Penisola. “Qualcosa indubbiamente si muoverà”, commenta Calderini. “Ora che i fondi sono sbloccati, avremo risorse vere in gioco. Anche se spero che si cominci a vedere qualcosa di interessante al di là dei settori tradizionali, come mobilità, rifiuti, energia (rispetto al quale, devo dire, c’è ancora pochissima innovazione). Mi auguro che l’avvio dei lavori porti valore specialmente su aree tematiche limitrofe, ma cruciali: parlo dell’inclusione sociale, dell’assistenza agli anziani, della gestione della giustizia, dimensioni su cui si è fatto poco in Italia”.
Rispetto ai bandi targati Horizon 2020, Calderini è convinto che sarà strategico governare le risorse destinate alle 14 città metropolitane. “Il successo dipende dal modo in cui permetteremo a questi progetti di convivere in un piano unico. Il decreto Crescita 2.0 del governo Monti aveva identificato nell’Agid il luogo in cui produrre azioni concrete da inserire nel piano nazionale. Nel documento Crescita digitale, l’Agenzia ha indicato in 400 milioni l’investimento necessario. Ma questi soldi vanno usati attraverso un processo fortemente bottom up, basato sull’iniziativa e sull’autonomia locale. Sarebbe un errore drammatico proporre una pianificazione top down. L’Agenzia deve limitarsi a mettere in campo strumenti, infrastrutture abilitanti: non smart city in sé, ma una cassetta degli attrezzi per realizzare una piattaforma, scalabile, interoperabile, evidenziando i diritti da assicurare ai cittadini in una città intelligente e favorire la nascita di portafogli misti pubblico-privato”, chiosa Calderini. “Il passo finale? Un’infrastruttura di misurazione: l’accountability è indispensabile quando si tratta di restituire benefici ai cittadini”.