«Sharing is the new black» o per chi ama parlar semplice, la sharing economy è il nuovo prezzemolo dell’innovazione. A condimento di eventi, analisi, programmi, discorsi, “social-cose”, una spruzzata di “sharing”, a quanto pare, non fa mai male. E probabilmente è proprio così. Vediamo perché.
La sharing economy, o economia collaborativa, inizia a registrare numeri e movimenti finanziari di tutto rispetto. PwC, riconoscendone la progressiva affermazione nel panorama business, stima per i cinque principali settori della condivisione (finanza peer-to-peer; condivisione e scambio alloggio; staffing on line; car sharing e condivisione di video e musica) un potenziale di crescita globale che muoverà dagli attuali 15 miliardi di dollari ai 335 per il 2025. Uber è stata valutata lo scorso dicembre 40 miliardi di dollari (ben oltre 15 volte il suo fatturato), mentre l’Harvard Business Review, analizzando in collaborazione con Deloitte il rapporto tra fatturato e valutazioni finanziarie per aziende improntate a diversi modelli di business, ha osservato che le aziende che adottano il modello cd “network orchestrator” registrano un rapporto tra revenue e valuation dalle due alle quattro volte maggiore rispetto alle altre. E tra queste aziende compaiono, neanche a dirlo, eBay, Red Hat, Uber, Tripadvisor, Alibaba. I network orchestrator, nella definizione della HBR, altri non sono che “quelle aziende che creano una rete di pari (peer), in cui i partecipanti generano valore attraverso interazione e condivisione. A distinguere la sharing economy, dunque, sono alcuni elementi che rimangono centrali anche quando le definizioni e le accezioni cambiano. Sono gli elementi che la pubblica amministrazione dovrebbe considerare quando decide di entrare nel movimento o quando, come sta succedendo, vi si trova inevitabilmente dentro. Parliamo di: piattaforma, abbondanza percepita, flussi di valore, community.
La combinazione di questi elementi dà origine a un cambiamento strutturale che l’olandese Ronald Van de Hoff definisce la Società 3.0. La sua genesi è nel cambiamento profondo delle dinamiche socio-economiche, direttamente riconducibile ai social network e agli sviluppi della rete. “Le persone – sostiene – condividono le proprie vite postando foto, filmati, storie e preferenze. E, così facendo, trovano nuovi amici con interessi simili. Questi raggruppamenti di amici diventano piccole reti e le reti diventano costellazioni. Attraverso l’uso del web questi gruppi iniziano a condividere la propria abbondanza, in termini di beni materiali, tempo e spazio, per creare nuovo valore economico”. L’ordine economico su cui poggia il nuovo sistema sociale è l’economia dell’interdipendenza o sharing economy.
Chiariamoci, la sharing economy non è determinata in sé dalle piattaforme social: non tutte le dinamiche di economia collaborativa dovranno necessariamente avvenire sul web così come è vero che l’economia collaborativa di per sé non è un’invenzione dei nostri giorni. Ma è pur vero che le potenzialità espresse dai social media, massivamente usate dalla famigerata Generazione Y o dei Millenials (nati tra il 1980 e il 2000), hanno reso possibile un cambiamento radicale e strutturale. E’ quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi: la condivisione sta diventando uno stile di vita.
Non è un caso che il 96% dei componenti della Generazione Y sia iscritto a un social media. Nel loro contributo alla pubblicazione “Share or Die”, della Great Transition Initiative, Gorenflo e Adam Smith sostengono che “la Generazione Y può contare negli Stati Uniti circa 100 milioni di utenti internet che, cresciuti a pane e web, hanno finito per mettere in pratica i valori di apertura e condivisione della rete nella proprio vita reale”. Ad avvalorare la tesi lo stesso Trendwatching, attento analista di trend di consumo e nuove opportunità di business, che ha ridefinito i Millenials “Generazione G”, dove G sta per Generosità, rilevando un cambiamento culturale in forte accelerazione, per cui “giving is already the new taking and sharing is the new giving”. Aldilà di ogni determinismo tecnologico, dunque, le piattaforme servono per condividere quello che viene percepito come un’abbondanza. Un surplus.
E’ interessante che proprio nel momento di maggior picco della crisi che da anni viviamo, caratterizzata da scarsità di risorse economico-finanziarie, emerga la percezione di un’abbondanza diffusa in tanti campi: dallo spazio abitativo all’automobile, dal tempo alle competenze, dai fondi privati da destinare a progetti di interesse attraverso crowdfunding e social lending al baratto e alla compra-vendita di oggetti. Questo è del resto l’approccio proposto dal percorso Sharitories – Toolkit per Territori Collaborativi avviato da OuiShare, comunità globale a sostegno della sharing economy, con la collaborazione di ForumPA. La sharing economy si fonda proprio sul riutilizzo e sull’ottimizzazione di risorse che andrebbero scarsamente utilizzate o sprecate. Per questo, nascono e proliferano le piattaforme collaborative, tra cui ben 134 censite in Italia nel 2014. Queste piattaforme, come ben visualizzato da Simone Cicero, Italian Connector OuiShare, nel suo Platform Design Toolkit, attivano flussi di valore, in termini di generazione, estrazione e scambio, dando potere alla comunità in contrapposizione alle istituzioni centralizzate.
Cosa deve fare la PA? Forse aprire gli occhi. Rendersi conto che, da un lato, la crescita della sharing economy chiede attenzione, facilitazione, regolazione, dall’altro non c’è altro da fare che entrare nel nuovo ordine, lasciandosi trasformare dal “new common sense” che sta emergendo. Per la PA non si tratta di un’operazione di restyling, ma di saper essere davvero utile alle sue comunità di riferimento.