Noi Italia dell’Istat, fornisce agili confronti statistici con altri paesi e all’interno del Paese, sugli aspetti principali della struttura demografica, economica e sociale. Limitiamoci ad alcuni aspetti relativi all’innovazione. La scarsa propensione a investire in ricerca da parte delle imprese e anche del governo relega l’Italia in posizione di coda: solo l’1,3% del Pil contro il 2,9 della Germania o il 2,2 della Francia. Se consideriamo solo gli investimenti delle imprese le cifre sono rispettivamente: 0,7%, 2%, 1,4%. Anche sul numero di brevetti la posizione è sfavorevole, con un numero (per abitante) inferiore ad un terzo rispetto ai paesi più avanzati d’Europa (questi dati sono del 2012).
L’Istat osserva che su questo posizionamento influisce anche la struttura produttiva italiana, basata su piccole imprese di settori tradizionali, dotate di scarsa propensione alla brevettazione e alla ricerca. Il dato sulla ricerca delle imprese è sicuramente sottostimato in modo sistematico, e non dipende dalla rilevazione, ma dalla contabilità aziendale. Le aziende non quotate in borsa non hanno nessun interesse a evidenziare come tali spese di ricerca che possono inserire come costi correnti. Infatti, mentre un’azienda quotata ha interesse a far risultare maggiori utili per gli azionisti, scrivendo le spese di ricerca e sviluppo tra gli investimenti ammortizzabili, chi non ha accesso al mercato dei capitali tramite la borsa, non ha nessun interesse ad aumentare gli utili su cui gravano le tasse di impresa e scrive la ricerca in conto reddito, ossia senza ammortamenti. Il tema è di grande rilevanza per valutare le politiche da adottare per promuovere la ricerca. Occorre riclassificare alcune spese nell’ambito dei bilanci, e questo ha senso solo con la collaborazione delle aziende stesse.
Un bel progetto che l’Istat dovrebbe mettere in cantiere, che aiuterebbe anche a capire meglio un altro dato interessante, in controtendenza con quello sulla scarsa propensione ad investire in R&S, ossia la percentuale, che in Italia è superiore alla media europea, di aziende innovatrici (41,4% contro 36%). Veniamo a internet (dati 2013). Dai 15 ai 24 anni pressochè tutti i giovani si connettono. Ma se consideriamo tutta la popolazione sopra i 6 anni, il dato di chi si connette almeno una volta a settimana negli ultimi tre mesi, scende al 56% contro la media dell’Ue del 72%. Qui non ci siamo proprio: solo Bulgaria e Romania sono messe peggio. Meno drammatica la percentuale di famiglie con accesso alla banda larga, cresciuta dal 2006 al 2014 dal 14 al 63%, dato ancora inferiore alla media europea, ma non così lontano come il precedente. Qui va tenuto d’occhio il digital divide regionale, dove il valore massimo supera del 50% il valore minimo.