L’ambasciatore di Israele: “L’Italia non perda il treno dell’innovazione”

Naor Gilon: “Il vostro Paese ha gli ingredienti giusti per crescere: i soldi non mancano e neanche il venture capital. Ci sono molti giovani interessati a fare innovazione”

Pubblicato il 16 Mar 2015

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“L’Italia ha dalla sua parte una forte economia industriale, seconda solo a quella tedesca. Fa parte delle grandi economie mondiali. Ha un sistema formativo eccellente e giovani volenterosi. Se in questo contesto si iniettasse una massiccia dose di innovazione si otterrebbero benefici enormi”. Ne è convinto Naor Gilon, Ambasciatore di Israele in Italia, che a CorCom spiega gli ingredienti della ricetta che hanno fatto di Israele uno dei Paesi più innovativi al mondo. “L’Italia deve spingere sull’innovazione almeno per due buone ragioni: da un lato perché l’innovazione accresce inevitabilmente la competitività di un Paese e dall’altro perché è in grado di abbattere fortemente la disoccupazione giovanile”, dice l’ambasciatore.
Ambasciatore Gilon, crede che l’Italia sia pronta per il cambio di marcia?
Questo è il momentum. L’Italia ha gli ingredienti giusti. I soldi non mancano, perché gli investitori, anche esteri, sanno riconoscere un buon progetto e di certo non si fanno sfuggire le occasioni. E non manca neanche il venture capital. Ma soprattutto, ci sono molti giovani interessati a fare innovazione e lo si vede dal livello di crescita delle startup. Per non parlare delle eccellenze nel campo della formazione, soprattutto universitaria: dal Politecnico di Torino a quello di Milano passando per l’università di Firenze, Roma Tre tanto per citarne alcune ed anche il Sud è molto attivo, penso alle iniziative in corso a Bari, Palermo e Catania. Poi ci sono grossi “incubatori” in grado di sostenere l’innovazione e lo sviluppo dei progetti.
E allora cosa manca?
Il punto è che le iniziative non sono accompagnate dalla creazione di un ecosistema che possa garantirne lo sviluppo al di là dei confini locali. In Israele è il ministero dell’Economia a coordinare le varie iniziative anche e soprattutto in termini di reperimento delle risorse economiche da dirottare sui singoli progetti. Insomma, servirebbe maggior coordinamento. E ciò è fondamentale. Spesso si dice dell’Italia che gli elevati costi del lavoro scoraggino le assunzioni e gli investimenti; ebbene in Israele sono persino più alti eppure ciò non ha impedito l’arrivo di parecchie aziende estere – ad oggi sono circa 250 per un totale di 50mila dipendenti diretti – che hanno aperto sedi locali e laboratori di ricerca e sviluppo, al punto da essere secondi solo alla Silicon Valley. Israele investe in R&D il 4,5% del Pil, la più alta percentuale al mondo. Ma tenga conto che stiamo parlando di un Paese piccolo e quindi come ordine di grandezza, sebbene l’Italia investa appena l’1%, in realtà la grandezza economica è superiore.
Secondo lei il governo Renzi sta facendo bene?
Il premier Renzi punta molto sull’innovazione e ha molta consapevolezza del ruolo che l’innovazione investe nella ripresa economica e nella nuova crescita. E non a caso la visita ufficiale che farà presto in Israele vedrà l’innovazione protagonista.
Ci sono progetti condivisi?
Con l’Italia stiamo portando avanti una serie di progetti, fra i quali anche alcune iniziative legate al sostegno alle startup innovative.
Perché le aziende investono in Israele?
Inizialmente venivano nel Paese per studiare il nostro modello e portarsia via le nostre migliori risorse, poi hanno capito che investire sul territorio è il modo migliore per reperirne sempre di nuove e quindi per stare al passo con l’innovazione e hanno deciso di aprire sedi locali nonostante, ripeto, gli elevati costi del lavoro. È vero che in parte questi costi sono compensati dalle agevolazioni fiscali per chi investe, ma la vera forza di Israele sta nei giovani talenti. E non è un caso se molti dei progetti più importanti delle società estere nascono proprio in Israele.
In Italia però il contesto è diverso.
Le similitudini fra Italia e Israele sono molte di più di quanto non si pensi e di sicuro sono maggiori di quelle fra Israele e Stati Uniti: il pil pro-capite ad esempio è simile ed i capitali da investire non sono di certo ingenti come quelli americani. La differenza è che Israele crede molto nei giovani, li sostiene anche con finanziamenti e fondi appositi e che il sistema della formazione deve di fatto autosostentarsi poiché solo il 50% delle risorse proviene dallo Stato, per il resto è necessario reperire fondi all’esterno e per farlo non si può che puntare su iniziative innovative. Ad esempio sono molte le aziende nate come spin off universitari che hanno ideato progetti che oggi valgono miliardi di dollari. E fra le nostre appena sette università, quattro sono al top delle 150 mondiali. Insomma l’Italia deve puntare sulla trasformazione culturale e puntare molto di più sulle giovani generazioni, anche mettendo in conto che innovare può far rima con fallimento. In Israele ci sono 5mila startup – nel solo 2014 ne sono nate un migliaio – e un terzo delle iniziative fallisce. Ma ciò non ha scoraggiato gli investimenti. E non ha scoraggiato i giovani.
Su cosa si stanno concentrando gli investimenti?
In Israele l’innovazione ora è molto focalizzata sulle iniziative che riguardano l’informatica e grande spazio sta acquistando la cybersecurity. Al Sud del Paese, l’università del Negev sta lavorando molto su questo fronte e posso scommettere che in breve tempo diventerà un’eccellenza mondiale. Il punto di forza di Israele è di essere un paese giovane e con molti giovani che hanno voglia di crescere e sono dotati di forte senso di responsabilità e indipendenza. Gli anni di servizio militare sono determinanti da questo punto di vista. Abbiamo molti giovani israeliani già diventati ricchissimi, basti pensare al caso Waze, l’azienda israeliana venduta a Google per oltre un miliardo di dollari. Di fatto sono i giovani i nuovi ricchi e lo saranno sempre di più in futuro. Per questo bisogna investire su di loro e spingere l’innovazione.
Innovare spinge la crescita. Quanto è cresciuto Israele?
L’innovazione mette in moto quel circolo virtuoso che stimola la crescita. E non è un caso se la crisi economica mondiale abbia investito Israele molto meno che altri. Nel 2014 siamo cresciuti del 3% e si tratta di un “record” al ribasso rispetto ai nostri ritmi, ma quest’anno la crescita sarà più sostenuta. Il 50% del Pil di Israele arriva dalla alta tecnologia e un altro quarto dalla media tecnologia. Esportiamo molto soprattutto in Europa (36%), sempre meno negli Usa (28%) e sempre più in Asia (26%).
È una ricetta replicabile in Italia?
Israele è un Paese che sull’innovazione punta molto ma la ricetta israeliana non può essere valida universalmente. Ciascun Paese deve trovare la sua strada tenendo conto delle specifiche peculiarità e degli obiettivi che si vuole dare. Ma di sicuro in Italia gli ingredienti per crescere ci sono tutti.

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