Unbundling 2013 e Tar del Lazio, “turning point” della regolazione

La sentenza che rigetta i ricorsi di Telecom e Fastweb non va a sostituirsi alle scelte di Agcom, ma si ferma a valutazioni di percorso logico-argomentativo. E in un momento in cui la posizione delle autorità indipendenti è relegata in un ruolo istituzionale difficile, il segnale lanciato dal Tribunale amministrativo è coraggioso

Pubblicato il 16 Mar 2015

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1. Nel 2013, a fine anno, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, con due decisioni, ha chiuso un periodo intenso, segnando un turning point della regolazione. Da un lato, con la delibera n. 746/13/Cons, ha approvato le condizioni economiche e tecniche dell’offerta di riferimento per l’anno 2013 relativa ai servizi di accesso disaggregato all’ingrosso; dall’altro, nello stesso giorno, ha definito il prezzo dell’unbundling (e non solo), con la delibera n. 747/13/CONS, “madre” di un nuovo processo regolatorio.

La risalita della ladder of investement, dalla centrale con l’unbundling del local loop sino all’armadio di strada con il sub loop unbundling, trova in queste delibere non solo una chiara indicazione in termini di prezzo ma anche le previsioni regolamentari (apertura dei cabinet) e tecnologiche (vectoring multioperatore).

A tali decisioni è infatti sottesa una filosofia di fondo ben precisa. Una filosofia (politico-economica) per la quale la transizione verso le reti in fibra deve avvenire promuovendo la concorrenza tra operatori, e non finanziando l’incumbent (attraverso alte tariffe all’ingrosso); al contrario, le tariffe all’ingrosso di taluni servizi vanno abbassate per incentivare il passaggio a livelli di rete più vicini al cliente e consentire risparmi di spesa agli altri operatori (OLO), in modo che anche questi ultimi siano nelle condizioni di provvedere alla posa di reti alternative a banda ultra-larga.

Una soluzione, questa, che si è posta nel solco degli orientamenti espressi in questi anni dal Parlamento europeo, da ultimo nella risoluzione sulla politica di concorrenza approvata la scorsa settimana. Nel testo, infatti, si afferma, fra le altre cose, che le limitazioni della concorrenza non promuovono gli investimenti in banda ultra-larga.

In questa prospettiva, le sentenze della Prima Sezione del Tar Lazio, depositate il 18 febbraio e il 9 marzo (n. 2769, 2772, 2775 e 3916 del 2015), che hanno respinto i ricorsi avverso le delibere n. 746 e 747 del 2013, sono estremamente importanti.

Non solo per i connotati della vicenda e per i benefici al settore, ma anche e soprattutto per il portato generale della pronuncia. Una portata così ampia da superare la singola fattispecie e giungere a toccare problemi di politica istituzionale e di diritto pubblico dell’economia – sui quali, in questo più che in altri momenti, è davvero necessario soffermarsi.

2. Partiamo dai contenuti delle decisioni, da trattare in estrema sintesi.

Sia l’aggiornamento dei parametri in base ai quali viene determinato il canone mensile dell’unbundling del local loop, sia la valorizzazione delle componenti sottostanti agli altri servizi in offerta di riferimento, quali quelli relativi alla co-locazione o al bitstream, conducono a tariffe orientate al costo: una soluzione, quella dell’Autorità, puntualmente confermata dal Tar (si v., per tutte, le sentenze n. 2775 e n. 3916 del 2015).

Viene avallato anche il calcolo del costo del capitale (Weighted average cost of capital, WACC), ridefinito secondo parametri che hanno consentito una valutazione accurata e calibrata, in linea con le più serie analisi finanziarie (peraltro di ordine generale, e non attinenti alle sole tlc). È utile, in merito, ricordare come il Tar rilevi che “alla luce della crisi finanziaria che ha attraversato il Paese con particolare riferimento al 2012, a giudizio del Collegio l’Autorità motiva adeguatamente la ragionevolezza del metodo adottato” (§ 18, sentenza n. 3916/2015).

Per Telecom, le valutazioni dell’Autorità producevano una “pesante sottostima dei prezzi necessari alla gestione dell’infrastruttura”, mentre per Fastweb, al contrario, la stima era “eccessiva”. Nessuno dei due rilievi viene accolto dal Giudice amministrativo, il quale invece ritiene corrette le valutazioni dell’Autorità.

E tutte sono stati confermate dal Tar. Segno che quando la regolazione è efficiente, le decisioni giurisdizionali ne hanno il massimo rispetto.

Come anticipato, più che sul dettaglio delle questioni tecniche sembra necessario soffermarsi su alcune implicazioni generali, di ordine sistematico, che emergono dalla lettura delle pronunce del Tribunale amministrativo.

Si è parlato di una filosofia di fondo: ebbene, la pronuncia giurisdizionale è importante in quanto l’approccio complessivo della regolazione, e la stessa natura del potere indipendente, viene rafforzata.

3. Particolare attenzione meritano i rapporti con la Commissione europea.

Il Giudice di prime cure riconosce le prerogative di AGCOM e la correttezza del confronto con la Commissione europea nell’ambito della procedura di cui agli articoli 7 e 7 bis della direttiva quadro. Il dialogo vi è stato, ed è stato reale. Per il Tar, infatti, le delibere “sono state legittimamente adottate all’esito di un corretto svolgimento della prevista procedura, rispettosa delle esigenze di partecipazione di tutti gli operatori e priva dei contestati “salti logici” […] motivando adeguatamente le variazioni apportate anche alla luce delle osservazioni critiche della Commissione europea”; di talché non emerge alcun “difetto d’istruttoria ovvero di contrasto con il diritto comunitario” (sent. n. 3916/2015).

I ricorrenti (in particolare Telecom nel ricorso n. sfociato nella sentenza n. 2775/2015), censuravano un “contrasto tra la direttiva gravata e le norme comunitarie e nazionali di settore” ravvisandolo nelle “osservazioni critiche formulate dalla Commissione UE nell’ambito del procedimento di consultazione che ha avuto a oggetto la delibera gravata”.

Tali passaggi, così come riassunti anche dal Tar, sono stati i seguenti: i seri dubbi espressi dalla Commissione, il parere di segno opposto del BEREC, la raccomandazione finale di Bruxelles (ancora critica) e, infine, la divergente decisione dell’Autorità italiana. Ebbene, la raccomandazione dell’“esecutivo europeo” è stata disattesa, come oggi ci mostra il Tar, con piena e fondata ragione. Tanto che, come ricorda il Tribunale, “la stessa Commissione non ha adottato alcun altra iniziativa, e, specificamente, non ha avviato alcun procedimento di infrazione ex art. 258 TFUE”.

Nella sentenza che ha definito il ricorso di Telecom (N.R.G. 3618/2014), il Tar ricostruisce il quadro normativo (§ 3 ss. della sentenza n. 2772/2015) e spiega in dettaglio la questione (per l’analisi di dettaglio del quadro normativo, sia consentito rinviare a quanto scritto in “Singoli rimedi, l’ultima parola spetta alle authority nazionali”, pubblicato sul Corriere delle comunicazioni il 24 gennaio 2014: http://www.corrierecomunicazioni.it/tlc/25442_singoli-rimedi-l-ultima-parola-spetta-alle-authority-nazionali.htm).

Partendo dai seri dubbi della Commissione “sull’idoneità del proposto WACC, spesso modificato dall’Autorità, a promuovere investimenti efficienti”, il Tar Lazio ricorda come già il BEREC, il 20 settembre 2013, ha reso il proprio parere ai sensi dell’art. 7-bis, paragrafo 3, della direttiva quadro (n. 2002/21/CE) su quanto obiettato dalla Commissione. Il BEREC non solo “ha ritenuto che il parere della Commissione […] fosse errato” e che “i costi commerciali e di manutenzione erano stati ottenuti a partire dai dati più recenti di contabilità regolatoria”, ma ha anche “attribuito alla sentenza del Consiglio di Stato” la giustificazione dell’urgenza con cui l’Autorità ha proceduto (si tratta del filone giurisprudenziale intervenuto sull’analisi relativa agli anni 2010-2012: Cons. St., sez. III, 25 marzo 2013, n. 1645, 28 marzo 2013, n. 1837, e 2 aprile 2013, n. 1856, ottemperate da AGCOM proprio di recente).

Ciononostante, da un lato, la Commissione ha adottato la raccomandazione dell’11 dicembre 2013, n. 8862 e l’Autorità, dal canto suo, ha mantenuto la propria posizione. Per il Tar, la decisione di AGCOM è perfettamente coerente con il quadro normativo: “emerge con ogni chiarezza come, contrariamente a quanto evocato dalla ricorrente, l’Autorità ben poteva discostarsi, come ha fatto, dalla raccomandazione della Commissione europea” (sent. n. 2772/2015, § 3.4). AGCOM ha offerto motivazioni pertinenti e giustificazioni consone al tenore del procedimento composto tracciato dalla direttiva.

Si può notare, in proposito, come il Tar colga esattamente il fuoco dell’ellisse: a venire in rilievo, infatti, è l’architettura complessiva della direttiva, le cui norme “preservano il corretto equilibrio di competenze tra livello europeo e nazionale”. “Non vi è dubbio”, prosegue il Collegio, “che nell’ambito della collaborazione tra le autorità di regolazione nazionali, la Commissione e il BEREC delineata dagli artt. 7 e 7-bis della direttiva quadro (2002/21/CE), sia rimesso alle autorità di regolazione nazionali il compito di definire le misure correttive di regolamentazione dei mercati in parola” (sent. n. 2772/2015, § 3.3).

La conclusione, oggi, è solare. Ogni dubbio, ogni critica, ogni accusa mossa all’epoca all’Autorità è dal Tar sopita, spenta e sgretolata.

Sono, queste, valutazioni di non poco momento.

Non sono di poco momento perché l’attuazione della procedura non è stata cosa facile: in quel periodo numerose critiche, anche infondate, venivano mosse ad Agcom da più parti, inclusa certa stampa e lo stesso incumbent, proprio per il ‘contrasto’ che si era venuto a creare con la Commissione europea. Ma era un contrasto sano. E, non da ultimo, legittimo: sui cd. rimedi regolamentari, come l’orientamento al costo dei prezzi di accesso alla rete, è l’autorità di regolazione nazionale (ANR) ad avere l’ultima parola. Non la Commissione.

AGCOM ha letto ed esercitato bene le attribuzioni ad essa conferiti dalle direttive e dal Codice delle comunicazioni elettroniche. Nessun abuso. Nessuna carenza di potere. Un segnale importante nell’equilibrio che il quadro normativo delle comunicazioni elettroniche disegna tra centro e periferia, tra Commissione, BEREC e autorità nazionali.

4. Tutto ciò si associa a un’altra considerazione, di portata generale.

Il Tar rispetta i poteri dell’amministrazione indipendente; non si sostituisce ad essa e rimane nel solco di un autorevole ed encomiabile esercizio della funzione giurisdizionale.

Per il Collegio, infatti, “le censure, non emergendo particolari vizi di manifesta irragionevolezza o di grave ingiustizia, finiscono inevitabilmente per impingere in valutazioni di merito rimesse all’Autorità, e non sindacabili da questo Giudice senza invadere l’ambito della discrezionalità tecnica riservato all’amministrazione” (sentenza n. 3916: il Tar qui richiama numerosi precedenti, tra cui proprio le sentenze prima citate del Consiglio di Stato n. 1837 e 1856 del 2013).

Ancora, nella sentenza n. 2775, sulla delibera n. 746, si afferma espressamente che “il Collegio non può non osservare che mediante le censure esposte la società intende sollecitare l’adesione dell’adito Tribunale a valutazioni di merito diverse da quelle compiute dall’Autorità. Ma tale tipologia di scrutinio non è consentito al giudice amministrativo, senza invadere l’ambito della discrezionalità tecnica riservato all’amministrazione” (§ 3 del considerato in diritto).

Il Tar si ferma alle valutazioni del percorso logico-argomentativo, con un sindacato che non è certo debole ma che, correttamente, non va a sostituirsi alle scelte dell’Amministrazione. Il Tar vaglia il rispetto delle norme, ma sapendo che ci si trova dinanzi a “concetti giuridici indeterminati”, sa bene che tale principio gioca un ruolo diverso. E il Tar, confermando un filone giurisprudenziale consolidato, non va oltre. In un momento in cui la regolazione e la posizione delle autorità indipendenti sono spesso messe sul filo del rasoio, e relegate in un ruolo istituzionale difficile, in cui i sostegni culturali iniziano a rarefarsi, il segnale lanciato dal Tribunale amministrativo è coraggioso perché va nel senso opposto.

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