Secondo Giovanni Ottati l’attacco di ieri a Tunisi è un preciso segnale del terrorismo internazionale al Paese più virtuoso del Mediterraneo. “La Tunisia ha dimostrato negli ultimi quattro anni di essere una nazione con grande coraggio, capace di affrontare un processo di democratizzazione graduale e senza disordini e che ha saputo accogliere due milioni di cittadini libici che hanno lasciato la propria terra dopo la caduta di Gheddafi”. Ottati conosce molto bene il Paese, in quanto è lì che si trovano alcuni tra gli asset più importanti della sua impresa, Vuetel, operatore di rete che lavora per i principali carrier africani e internazionali (oltre che per il mondo enterprise) fornendo servizi voce e, a partire dal prossimo giugno, traffico dati. “La situazione a Tunisi non ci spaventa”, ribadisce Ottati, “siamo abituati a lavorare in Libia, dove per il momento l’incolumità fisica è a rischio tutti i giorni. Per questo continueremo con il nostro piano di investimenti e crescita nel Nord Africa e nella regione subsahariana”.
La Tunisia è il Paese in cui avete avviato l’attività, nel 2009…
Per noi non è solo un mercato, è il luogo in cui abbiamo attuato una sinergia forte, con un altrettanto forte processo di integrazione. La Tunisia è fondamentale non solo a livello economico, perché rappresenta una parte importante del fatturato, ma lo è anche dal punto di vista tecnologico, organizzativo e logistico. Ci lavorano 20 delle 50 risorse di Vuetel, tra tecnici e ingegneri, costituendo il centro di supervisione e controllo del nostro network per la parte voce. A Tunisi abbiamo investito in sistemi hardware e infrastrutture di tipo logistico 300-400mila euro in cinque anni con una spesa corrente di 200 mila euro.
Il prossimo passo?
Investiremo in Egitto un milione di euro nei prossimi cinque anni per realizzare il centro di controllo per quanto riguarda il traffico dati, che renderemo disponibile nella nostra offerta a partire da giugno.
L’affare è profittevole, nonostante le criticità dell’intera area?
Il fatturato 2014 è di 90 milioni di euro, e abbiamo appena cinque anni di vita. La nostra crescita è state esponenziale: nel 2010 fatturavamo 2,7 milioni di euro, nel 2011, in piena Primavera araba e quindi con un certo rallentamento del business, 12 milioni di euro. Siamo arrivati a 30 milioni nel 2012 e a 61 milioni nel 2013. Per il 2015 dovremmo toccare i 110 milioni di euro.
In Libia però, l’ha detto lei stesso, la situazione è quanto meno problematica…
Certamente oggi la Libia è un Paese attraversato dalla guerra civile, ma ciò nonostante le comunicazioni non sono cessate. La rete telefonica funziona, ci sono persone che lavorano e che garantiscono la continuità dei servizi. D’altra parte le aziende non hanno l’esigenza di richiedere collegamenti dedicati allo stato attuale delle cose. Ma presto si determineranno le condizioni per un governo unificato e per questo stiamo già lavorando con i libici per far partire servizi di tipo enterprise.
Di mezzo però c’è anche l’IS. Quando, realisticamente, la situazione potrebbe cambiare?
Secondo me prima del 2017. Le diverse fazioni stanno incontrandosi a più riprese e ci sono due Paesi, l’Italia e l’Egitto, che stanno accompagnando con saggezza questo processo. E anche per questo credo che ci sarà pochissimo spazio per lo Stato Islamico. In ogni caso, noi continueremo a investire anche in Libia. Soprattutto perché stiamo per differenziare l’offerta con la connettività dati.
La domanda sui dati in Nord Africa va creata o esiste già?
Esiste, ed è importante. Imprese e cittadini hanno sempre più bisogno di banda Internet, e il mercato offre ampi margini di crescita. Siamo in concorrenza solo con Orange e British Telecom, ed è per me motivo di orgoglio essere l’unica impresa italiana in questa arena. Solo Telecom, con Sparkle, si era cimentata prima di noi, ma aveva alle spalle gli investimenti dello Stato italiano.
Cosa ha tenuto le altre aziende lontano da questa regione?
Innanzitutto la scarsa conoscenza del mercato arabo e mediterraneo in generale. Oltre alla mancanza di relazioni con questi Paesi. Ma sono stati carenti anche i modelli di business. In Italia un’azienda decide di internazionalizzarsi quando capisce che le sue prospettive nel mercato interno sono ridotte o quando i rischi di concorrenza crescono, o ancora se si riducono i margini. L’internazionalizzazione, per me, non è un ripiego, è strategia.
Quello che è successo ieri a Tunisi davvero non rischia di incrinare questa strategia?
Come titolare di un’azienda, come imprenditore, dico di no. Conto anzi di sviluppare ulteriormente la presenza in Tunisia, assumendo nuove persone. Sono state le competenze tunisine che ci hanno permesso di crescere come siamo riusciti a fare, ed è per questo che continueremo a investire in un Paese che merita rispetto da parte di tutta la comunità internazionale.