Il risultato di circa cinque lustri di liberalizzazioni nel mercato delle tlc è sotto gli occhi di tutti: attività di impresa fortemente garantita, criteri privatistici applicati a beni e servizi prima forniti in regime pubblicistico, offerte commerciali, possibilità di scelta del consumatore.
La liberalizzazione integra una visione di policy che non proviene dall’Italia ma dalla disciplina sovranazionale dell’Unione europea (quando ancora era Comunità economica).
La liberalizzazione, latu sensu intesa, conduce a una “disaggregazione” dello Stato. Il quadro complessivo indica, infatti, una tassonomia articolata, che necessita di un aggiustamento per evitare il “disorientamento” di chi è coinvolto di fronte alla perdita di ruoli e funzioni da parte dello Stato: i consumatori e le imprese.
Redigendo un primo bilancio “giuridico” delle liberalizzazioni potremmo evidenziare tre grandi linee generali.
Prima linea: le regole. Abbiamo assistito al passaggio dalla “regolamentazione” della vecchia disciplina alla nuova “regolazione” delle authorities. Che è equidistante, volta a equilibrare gli interessi di imprese e utenti e non a tutelare l’amministrazione.
Seconda linea: i livelli di protezione. Sono cambiati strumenti e tecniche di protezione dei servizi erogati. Quando delicati e di rilievo sociale, i servizi sono stati inclusi nella “incerta” definizione di servizio universale, servita a tutelare le fasce deboli dalla market failure. Il SU rimane un principio fondamentale di democrazia, e non solo economica (si pensi al caso Poste).
Oggi ha senso iniziare a riflettere sulla ridefinizione del perimetro del servizio universale per capire l’impatto di fenomeni nuovi, come la Rete, le piattaforme e i servizi digitali. Ma serve un’analisi approfondita, non fughe in avanti. Il riferimento sono sempre i diritti dei cittadini, dei consumatori, specie quelli più deboli.
Terza linea: il rapporto tra politica e tecnica. Entrambi vivono in un rapporto altalenante. Quando la politica si ritrae la tecnica avanza, cambiando notevolmente l’agenda pubblica. Non si va sempre nella stessa direzione, e non in modo lineare. Anzi, stiamo procedendo secondo una curva discendente. Come ha scritto Sabino Cassese “[v]i sono poteri indipendenti […] talora in ritirata, perché soggetti a erosione di funzioni da parte della politica”.
La ritirata è oggi evidente, se noi delle authorities siamo tenuti a confrontarci sempre più spesso con problemi di day by day management, invece di questioni “generali”. È quanto accade con il finanziamento, le funzioni, l’attrazione in via legislativa di compiti regolatori.
È giusta questa ritrazione della tecnica e della neutralità? Cosa hanno fatto in questi anni le autorità per meritarlo? Come hanno beneficiato i cittadini/utenti, di cui oggi parliamo?
Passiamo ora al bilancio “economico” delle liberalizzazioni. Secondo Jean Tirole, la concorrenza è soprattutto una questione di tariffe efficienti. I dati Istat confermano le assunzioni del Premio Nobel: dal 1996 ad oggi i prezzi dei servizi telefonici sono scesi di quasi il 25%! Anche guardando agli investimenti, la concorrenza sta giocando un ruolo cruciale. Vodafone e Tim si contendono la leadership nel 4G con una copertura ormai prossima all’80%. Nel fisso, dove la concorrenza deve ancora migliorare, la concorrenza tra reti FTTC sta dando buoni risultati. Il gap con l’Europa resta elevato, ma solo negli ultimi due anni la copertura è raddoppiata (dal 15% al 30%). Senza dimenticare che Milano è la città più cablata d’Europa grazie a Metroweb.
I benefici della liberalizzazione sono ancora più evidenti nel mercato televisivo, in cui – complice il passaggio al digitale terrestre – l’offerta è esplosa in pochi anni, da 10 a 180 canali nazionali, tutti gratuiti. A vantaggio esclusivo del consumatore finale.
Quanto al settore postale, è troppo presto per un bilancio: il percorso di liberalizzazione è stato avviato in tempi recenti: Agcom se ne occupa solo da fine 2011. Perché promuovere la concorrenza in un settore che presenta trend di ricavi in costante declino? Perché favorisce un efficientamento dei costi e un incremento della qualità e l’innovazione dei prodotti che possono dare nuovo slancio al mercato.
Senza sacrificare l’universalità del servizio, come ribadisce la direttiva europea: dobbiamo evitare in tutti i modi che al digital divide si aggiunga un postal divide. Perché la liberalizzazione deve andare a vantaggio di tutti, non esistono cittadini e consumatori di Serie B solo perché vivono in aree remote.
Un dubbio, però, sorge spontaneo: i consumatori sono capaci di sfruttare a pieno le opportunità della liberalizzazione? I dati mostrano segnali discordanti. Da un lato, dal 2005 si sono concluse oltre 74 milioni di number portability nel solo mercato della telefonia mobile. Dall’altro lato, però, un quarto della popolazione non ha mai cambiato operatore e forse non lo cambierà.
Ecco il “dilemma del regolatore”: sono consumatori “fedeli” o “inconsapevoli”? Per evitare che la concorrenza avvantaggi solo un numero ristretto di consumatori smart, serve una bussola fatta di regole precise che scoraggino comportamenti sleali e garantiscano un’informazione di alta qualità.
La concorrenza, di per sé, non è una bacchetta magica. Le imprese hanno sempre un vantaggio informativo. Come afferma un altro grande Premio Nobel, Joseph Stiglitz, l’intervento regolatorio pubblico è sempre giustificato quando c’è informazione imperfetta nel mercato. L’esempio è a portata di mano: la trasparenza delle informazioni in bolletta, regolazione di recente messa a consultazione da Agcom. Oppure la carta dei servizi postali, novità del settore sempre introdotta dall’Autorità.
Senza dimenticare che regolazione e concorrenza non escludono discriminazioni e disservizi nel mercato wholesale, con impatto diretto sul mercato retail in termini di qualità del servizio. Penso al caso della parità di accesso alla rete di Telecom. Si può e si deve fare meglio.
Non servono rigorismi, ma analisi dettagliate, caso per caso. Come dovrebbe, a mio avviso, avvenire se vi fosse una fusione tra il terzo e il quarto operatore di telefonia mobile in Italia.
Oggi più che mai è necessaria una forma di indipendenza strutturale. Dalla politica e dal mercato. In tempi di crisi è anche possibile che il Governo eserciti i suoi poteri relativi alla definizione di una “politica industriale”. In alcuni casi è giusto, per bilanciare le ciclicità negative o magari promuovere la domanda. Per intervenire in modo complementare ai privati, sanando i fallimenti del mercato. Penso al Piano per banda ultralarga.
Ma un sistema istituzionale funziona se vi è “leale collaborazione” tra Governo e Autorità indipendenti senza prevaricazioni o insofferenze. Il rispetto dei relativi “saperi” serve all’interesse del Paese e della sua economia, non è una questione di prerogative e competenze.
È necessaria, in conclusione, una sana convivenza tra politica dell’economia ed economia della politica. Un accento giusto da porre ora sulla “regolazione tecnica”, ora sugli “indirizzi politici”. Le liberalizzazioni sono scelte profondamente “politiche”: ma spetta alla “tecnica” pensare al loro sviluppo.