Riforma Rai, De Minico: “Poca attenzione all’inclusione digitale”

“Il disegno di legge 1880 non ridefinisce il servizio pubblico in rapporto all’evoluzione tecnologica. Il modello sia la Bbc”. L’analisi della professoressa di Diritto costituzionale dell’Università Federico II di Napoli

Pubblicato il 09 Lug 2015

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La riforma Rai dopo le audizioni degli esperti procede a passo lento. Esaminiamone gli obiettivi. Lo spirito del disegno di legge, 1880/2015, è quello di restituire il governo del servizio pubblico, cioè di quella attività diretta a informare, educare e intrattenere gli italiani, a una sana e neutrale gestione. Per sana intendiamo una gestione in grado di coniugare il mercato con la missione pubblica; per neutrale intendiamo una direzione editoriale insensibile ai comandi della politica.

Obiettivi ambiziosi, ma come la riforma come intende conseguirli? Il disegno di legge 1880 prevede un consiglio di amministrazione scomponibile in più anime, in estrema sintesi riducibili però a due: la maggioranza parlamentare e di governo da un lato; e un’esigua e irrisoria minoranza, espressa dai lavoratori, dall’altro. Precisamente: 6 componenti di nomina politica e 1 affidato alla scelta non meglio definita dei lavoratori.

Quanto alle funzioni, pesanti poteri si affollano nelle mani dell’amministratore delegato: il continuatore ideale dello indirizzo politico di maggioranza espresso nel Consiglio di amministrazione, in quanto da questo nominato.

La riforma ci fa tornare indietro negli anni, quando nel 1974 la Corte costituzionale dinanzi a una Rai schiacciata sul Governo suggerì al legislatore un disegno della concessionaria spostato sul Parlamento e sottratto all’Esecutivo. Indicazioni, queste, tuttora attuali, perché il disegno di legge in esame non cura l’antico difetto di una Rai filogovernativa.

Rivolgiamo ora l’attenzione all’obiettivo della sana gestione: competere sul mercato con i broadcaster commerciali senza venir meno ai propri doveri di gestore del servizio universale. Ma ricorrono le premesse per conseguire tale fine?

Un esempio tratto dall’esperienza britannica potrà servire. La BBC con la riforma della Royal Charter 2007 ha posto i suoi organi, Trust e Board, alle dipendenze formali del partito del premier, ma al tempo stesso essi si sono di fatto resi autonomi nell’operare da un gentlemen’s agreement per cui il nominato, una volta scelto, recide con fierezza ogni legame con il nominante.

Nell’agire la BBC si presenta con due volti: quando educa, informa e intrattiene i cittadini, si mostra come concessionario pubblico e quindi si finanzia col canone. Quando, invece, propone sul mercato nuovi servizi commerciali, si mostra come imprenditore e quindi si finanzia con i soli proventi pubblicitari.

E il rischio che la BBC faccia passare come servizio universale una mera prestazione d’impresa è evitato in quanto il legislatore ha opportunamente saldato il suo profilo funzionale con quello soggettivo. Il Trust, forte della sua effettiva neutralità, deve valutare se il nuovo servizio sia socialmente inclusivo oppure no. E siccome il “public value test” non è un’operazione matematica, il Trust, nel giudicare se il servizio faciliti la crescita culturale e politica del telespettatore, si deve far accompagnare dall’autorità indipendente OFCOM. Quest’ultima è chiamata invece a valutare l’impatto del medesimo servizio sul mercato, ammettendolo solo se comprometterà in misura ragionevole, inevitabile e giustificata l’equilibrio competitivo.

Anche la nostra Rai dovrà affrontare le sue sfide: quella analoga al public value test britannico, ma anche una – inedita – connessa al futuro passaggio dall’etere a Internet. Su questo terreno la Rai dovrà, non più concedere l’accesso ai terzi a titolo di concessionaria delle frequenze, ma a sua volta pretenderlo dai gestori di rete, non diversamente da come faranno gli altri broadcaster migrati in Internet. Questo nuovo scenario tecnologico porrà un interrogativo: la domanda di accesso della RAI funzionale a prestare il servizio audiovisivo dovrà essere preferita o equiordinata a quella di una tv commerciale?

Le domande non si esauriscono qui: si porrà infatti la questione di come ridefinire la mission della Rai in ragione della domanda di inclusione digitale dei cittadini-utenti. Quali saranno le nuove prestazioni coerenti funzionalmente con la vocazione sociale? In altre parole, come si dilatano i compiti tradizionali di information, education e entertainment in forza dell’aggiunta di una nuova “E-evolution”?

Le domande poste dalla sfida tecnica non ricevono nemmeno un principio di risposta nel disegno 1880, che rinvia in blocco questa materia a un decreto legislativo, peraltro privo dei requisiti minimi di costituzionalità perché non detta al governo i criteri per la successiva disciplina, ma fa passare per criteri quello che in realtà è l’oggetto di una delega in bianco. Al dubbio di costituzionalità del futuro decreto, si aggiunge la preoccupazione che tali questioni difficilmente potranno essere affrontate da una Rai che, se pur riformata, non disporrà di una governance serena perché lontana dalle sirene della politica.

Forse il Parlamento potrebbe approfittare di questa stasi per riflettere su come restituire il servizio audiovisivo a una gestione rispettosa delle ragioni del mercato, coerente con la vocazione sociale, impermeabile alla mutevole volontà politica di maggioranza e sensibile alle sfide tecnologiche.

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