Uber mette la quinta sulla sicurezza, e lo fa annunciando di voler quadruplicare il team appositamente dedicato, passando da 25 a cento risorse. Una manovra che non riguarda semplicemente la data protection e tutto quell’insieme di strumenti ormai imprescindibili non solo in una tech company, ma in una qualsiasi impresa attiva sul piano interna: il potenziamento della divisione, al cui vertice c’è Joe Sullivan (ex eBay ed ex Facebook, approdato in Uber lo scorso aprile), servirà anche a verificare l’identità dei conducenti iscritti alla piattaforma e indirettamente a garantire anche la sicurezza fisica dei passeggeri.
Anche se il top management continua tenacemente a dichiarare che Uber non è un’impresa di trasporti, le sfide che il gruppo deve infatti affrontare in tutto il mondo – e in un gran numero di tribunali – hanno sempre più a che fare con le dinamiche che coinvolgono i consorzi di tassisti e trasportatori privati. Ma se i contrasti e le cause sulle licenze sono all’ordine del giorno, i temi dell’affidabilità dei conducenti e delle garanzie per i clienti in caso di incidente, senza contare tutto il sostrato di data protection sulle informazioni generate dai nuovi processi – si stanno conformando come gli inediti terreni di scontro che decideranno il successo di Uber nell’era della sharing economy.
“La cosa davvero straordinaria è che possiamo usare la tecnologia per migliorare tutte le aree di nostra responsabilità”, ha confermato Sullivan, alludendo non solo alla privacy dei clienti, ma anche alla protezione dei propri collaboratori. Essere un conducente collegato a Uber oggi può essere pericoloso, come hanno dimostrato le proteste – purtroppo anche violente – che si sono verificate a Milano e Parigi. E di certo il campanello d’allarme per la società è suonato in maniera inequivocabile quando lo scorso febbraio circa 50 mila profili tra quelli dei driver iscritti alla piattaforma sono stati violati da un operatore che al momento non è ancora stato identificato.
L’altro campo d’azione è quello della tutela anche fisica del passeggero, che però, ancora una volta, passa prima di tutto dal controllo del guidatore. Il recente caso di New Delhi, dove un autista è stato accusato (il processo è in corso e l’uomo si dichiara innocente) di aver violentato una cliente di Uber, non ha generato solo un danno di immagine alla società, ma anche uno stop provvisorio al servizio da parte delle autorità indiane.
Prevenire situazioni analoghe vuol dire rendere infallibili o quasi i processi di selezione dei collaboratori. Attualmente i candidati devono fornire alla società un dossier completo sul proprio status giuridico e legale e sulle condizioni del veicolo. I dati vengono poi processati da sue sistemi comunemente utilizzati da altre imprese (Accurate e Checkr) per la verifica delle informazioni sui pubblici registri (da quello dei soggetti segnalati come molestatori sessuali fino ai database relativi alle attività terroristiche, passando per i file della motorizzazione e gli schedari della polizia) e, una volta ottenuto il semaforo verde, Uber procede all’attivazione della partnership.
Superare questo screening non è semplice, se si considera che nel 2014 solo in California (dove ci sono circa 160 mila autisti attivi) più di mille soggetti già titolari di licenze per guidare taxi o limousine sono stati respinti per aver commesso in passato reati considerati da Uber incompatibili con il proprio codice di condotta. Ma per essere esclusi basta molto meno: è sufficiente aver preso diverse multe o essere stati coinvolti in incidenti stradali nei cinque anni precedenti all’inoltro della domanda. D’altro canto, Uber intende intensificare i controlli anche per evidenziare eventuali frodi ai danni della società: la scorsa settimana a Hong Kong sono stati arrestati cinque guidatori che giravano per la città sprovvisti della regolare assicurazione. L’arresto ha portato poi le autorità cinesi a irrompere negli uffici locali della multinazionale. E ulteriori grane giudiziarie sono l’ultima cosa di cui ha bisogno Uber.