«Le fabbriche sono cambiate, ora è il momento di cambiare l’organizzazione di tutta la value chain e produrre competenze all’altezza delle sfide che l’industria 4.0 impone”. Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista e docente di Economia alla Bocconi di Milano, spiega a CorCom cosa serve all’Italia per agganciare il treno della ripresa industriale, oggi inequivocabilmente connesso alla smart manufacturing.
Maffé qual è lo stato dell’arte dell’industria italiana rispetto all’evoluzione verso la modalità 4.0?
Variegato direi. Ci sono alcune aziende, tipicamente inserite nella filiera tedesca, che di fatto sono state costrette a fare smart manufacturing. Si tratta, in particolare, di quelle dell’Oil&Gas, della chimica, delle macchine utensili. Ci sono poi le medie aziende – mi riferisco a quelle attive nei settori del packaging, piastrelle e legno, pelletteria e calzature – che stanno approcciando al nuovo modello di servizio e che ci sono arrivate autonomamente. Ci sono, ancora, quelle mediamente tecnologizzate, ma con sistemi ancora a sylos e scarsamente interoperabili e, dunque, non ancora pronte al salto. E, fine, ci sono le piccole e piccolissime che ancora non hanno preso coscienza del valore dell’IT ma che rischiano grosso se non si danno una mossa.
Analizzando il fenomeno dell’’industria 4.0 nel suo complesso, cosa manca all’Italia?
Manca una teoria della domanda. Ad oggi l’offerta si integra e converge, ma non stiamo integrando la percezione della domanda. Se andiamo a proporre ai clienti il singolo pezzettino e non operiamo anche una sintesi sul lato cliente, non chiudiamo il cerchio.
In che senso?
Semplificando, significa superare il tradizionale rapporto tra fornitori e clienti, arrivando a ridefinire anche il concetto di vendita e quindi cambiare l’organizzazione delle imprese. In questa prospettiva non si può fare Industria 4.0 senza ridisegnare la demand chain. La mia tesi è che non si vendono più le macchine. Si comprano opzioni di produttività.
Significa anche passare da una logica di prodotto a una di servizio?
Certamente. L’industria 4.0 necessita di una profonda riorganizzazione della value chain per sviluppare, a monte, “brilliant product” – per usare un termine caro a GM – e, a valle, per far diventare il servizio da intervento di “trouble management” e post vendita, quale attualmente è, a focus della strategia aziendale. È il prodotto che deve diventare ancillare rispetto al servizio, non il contrario. Le imprese vanno sollecitate ad operare questa rivoluzione.
In che modo?
Tramite l’intervento delle associazioni di categoria – Confindustria in prima linea – che devono fare campagne di sensibilizzazione e far capire che la smart manunfacturing allarga il mercato e la quota di valore aggiunto intermediabile. C’è poi un compito che l’università deve svolgere: ovvero quello di creare competenze in grado di diventare agenti del cambiamento nella value chain. Ma questo è possibile solo se l’università esce dall’isolamento dell’accademia e si contamina con il mondo della produzione.
A proposito di competenze. Ne servono di nuove e altamente specializzate per fare il salto 4.0…
La carenza di competenze e “IL” problema. E come ho appena detto serve che il mondo della formazione si attrezzi per creare nuove figure professionali, anche a livello manageriale. Bisogna mettersi in testa che l’operaio di stampo fordista, così come lo abbiamo conosciuto fino a pochi anni fa, è destinato a scomparire. L’industria 4.0 cambia gli skills necessari in fabbrica perché la quantità di IT che entra nella produzione è colossale: la meccanica tradizionale è insufficiente e l’operaio non lavora se non sa anche di software che è centrale per far funzionare le macchine.
Questo in fabbrica. Sul fronte del servizio, invece?
In Italia manca totalmente la cultura della service economy, di relazione con il cliente, di tempestività nelle gestione degli errori, di manutenzione programmata e di analisi dell’industrial internet. Va fatto uno sforzo complessivo da parte di aziende e università per colmare questo gap.
Lei dice alle aziende: riorganizzatevi o rischiate grosso. Ma per farlo servono risorse che, in tempi di crisi, scarseggiano. E comunque quelle che ci sono spesso non vengono usate per fare innovazione. Lei che idea si è fatto?
Che la carenza di capitali è un problema che non esiste. Stiamo parlando di tecnologie poco costose, ma che determinano costi organizzativi altissimi. Il gap è di capitale umano in grado di gestire la trasformazione organizzativa necessaria a rendere la produzione “smart”.
L’industria 4.0 metterà un freno alle delocalizzazione. Si potrebbe ritornare a produrre in Italia?
La smart manufacturing riconfigura la value chain: si produce dove si vende, e quindi dove c’è domanda, perché il prodotto deve stare vicino al cliente in una logica di service economy. Dire che si torna a produrre in Italia è un’affermazione tayloristica che poteva andare bene negli anni Ottanta, ma che non si addice a questo modello di produzione. È probabile che la produzione torni in Europa, ma anche questo è tutto da vedere.
Quale sarà l’impatto sull’occupazione?
Non ci sono garanzie che il fattore produttivo lavoro sia preservato. Il lavoro non è una variabile indipendente. L’industria 4.0 non servirà a creare posti di lavoro, ma a redistribuire la catena del valore aggiunto. Tale redistribuzione comporta delle minacce ma anche delle opportunità.