Com’è fatto il futuro? Se lo chiedono in molti e tra questi c’è Donato Iacovone (su Twitter: @DonatoIacovone), amministratore delegato di EY (Ernst&Young) in Italia e managing partner dell’area Mediterraneo. Nel 2008 l’idea che ha preso corpo è stata quella di organizzare un incontro annuale per fare luce sulle ragioni della crescita, sulle strategie del cambiamento. «Siamo arrivati all’ottava edizione – dice Iacovone – e l’evento di Capri, pensato per capire il cambiamento che digitale e innovazione portano in specifici settori, per la prima volta quest’anno diventa trasversale».
È l’evento “Digitale X la crescita – Facciamo il punto, verifichiamo la rotta” che si terrà l’8 e 9 ottobre, durante il quale si affronteranno vari temi: dall’Agenda digitale all’Internet delle cose, dalle infrastrutture a banda ultralarga al futuro dei media sino alle nuove competenze per i mestieri dell’economia che cambia e la customer experience come centro degli ecosistemi digitali. Temi molto ampi. «Ma l’obiettivo finale – dice Iacovone – è semplice: verificare lo stato dell’arte delle filiere Ict e digital, discutere gli assi di intervento prioritario, mettere a confronto progetti, risultati e idee a sostegno della competitività del Paese». La discussione avviene con 360 top manager di aziende nazionali e internazionali, oltre a rappresentanti delle istituzioni, media e associazioni.
Con un lavoro come questo alle porte, qual è stato il punto di partenza? Da quale consapevolezza siete partiti?
Abbiamo visto che in alcuni settori l’impatto del digitale è stato molto visibile: nei media e comunicazioni, ad esempio, non è cambiato soltanto il modo di lavorare ma anche il business model. Dove prima si facevano soldi con la pubblicità e sistemi di raccolta e canali, adesso cambia tutto. Chi si è mosso in fretta ha retto il passo, altri fanno fatica e hanno grandi perdite. Però, mentre nei media è chiaro cos’è successo, in molti altri settori si ha come l’impressione che il digitale non impatti molto. E non è vero.
Un esempio?
Anche il mio stesso settore, quello dei servizi professionali, sembrava appena sfiorato dalla rivoluzione digitale. Invece lo sviluppo di applicazioni e software ha cambiato radicalmente il nostro contesto e quello di altre aree come avvocatura, revisione fiscale. Un altro esempio è quello del compartimento manifatturiero: non mi riferisco alle stampanti 3D, ma alla gestione dell’azienda: gli acquisti, i processi, la realizzazione e distribuzione dei prodotti. Sta cambiando tutto.
Qual è il problema-chiave di questa trasformazione, secondo lei?
Un problema è sicuramente la complessità. C’è bisogno di semplificazione che non riusciamo a cogliere, oltre alla contaminazione tra settori. Per la prima volta a Capri ne parleremo in questo senso, perché non si può frammentare qualsiasi decisione strategica in un rivolo di strade e strategie amministrative diverse.
Innovazione digitale: quali sono le ricadute sul lavoro?
L’automazione è uno dei grandi temi di cui tener conto. Prima si parlava dei robot e dell’impatto che hanno avuto in fabbrica, sul lavoro e sull’occupazione. Adesso si parla di automazione dei servizi e questo colpirà la forza lavoro impiegatizia. Le faccio un esempio: più si procede nei processi di fatturazione elettronica, registrazione contabile digitale e si creano sistemi software e algoritmi sempre più sofisticati, meno saranno necessari impiegati “generalisti” in azienda e negli uffici delle amministrazioni.
“Disruptive innovation”, il rischio dell’azienda di essere superata da un avversario che sconfina magari da un altro settore, come l’orologeria svizzera che subisce l’Apple Watch. È un tema che secondo lei viene percepito dalle nostre imprese?
Le racconto cosa mi ha detto tempo addietro un imprenditore. Lui, e prima di lui suo padre, sono sempre andati alle fiere del loro settore: un’occasione per prendere spunti per l’innovazione, oltre che per fare business. Le ultime novità infatti erano nei saloni della fiera. Oggi invece ha scoperto che trova spunti più interessanti e innovativi in fiere di altri settore che con il suo non c’entrano niente. Perché non si sa più da dove possa arrivare il prodotto del domani. In un mondo così, mi ha detto l’imprenditore, non basta più avere un radar capace di guardare in avanti agli innovatori e ai potenziali avversari, ma servono anche radar a più lunga gittata, su frequenze diverse. Competere sul mercato comincia a essere sempre più complesso e sofisticato, aggiungo io. Magari più interessante ma più difficile.
Le nostre PMI però sono agili e veloci: competono meglio, no?
No. La scala in questo caso conta: i grandi sono più lenti ma possono investire di più in innovazione. Invece penso che i nostri piccoli dovrebbero muoversi in consorzi snelli, finanziare le startup, lavorare con le università. Una PMI può scommettere 50mila euro su una pattuglia di giovani innovatori. Però questo richiede qualcosa di più.
Che cosa?
Una governance unica, perché il nostro Paese ha tantissimi livelli amministrativi, tantissimi soggetti autonomi. Troppi. Con un tessuto così diviso e frammentato l’esecuzione dell’innovazione diventa difficile. Per questo si parla di digitale da anni ma si fa molto poco.
Una battuta per chiudere: il software si sta mangiando il resto del mondo?
No, piuttosto corre davanti al mondo. E se non cerchi di catturare quel che si muove fuori dalla tua azienda, perdi.