Una delle basi imponibili più sfuggenti e complesse della storia del capitalismo è stata relegata ad un dibattito di serie C. Dopo l’annuncio di Matteo Renzi ho scoperto che a Palazzo Chigi non c’è nulla di più di un dropbox con una proposta di legge parlamentare e un testo preparato dal sottosegretario all’Economia, Zanetti. Nessun testo organico o documento serio, ne discende che la digital tax made in Italy è poco più di un tweet renziano. Significa che Renzi ha voluto testare il terreno? Orientare le aspettative del mercato?
Vedremo, per adesso le proposte in campo sono impraticabili e anche velleitarie. Per i grandi colossi dell’economia digitale l’Italia vorrebbe “inventare” l’istituto della stabile organizzazione coattiva. Operate in Italia facendo transazioni di qualsiasi sorta? Allora noi vi assegniamo comunque la stabile organizzazione a fini fiscali anche se voi non l’avete ufficialmente aperta e assoggettiamo a tassazione il fatturato prodotto tramite i consumatori italiani. Come? Applicando una cedolare secca del 25% sui ricavi, cioè a titolo di imposta definitiva. Ammesso e non concesso che i trattati internazionali e la stessa giurisprudenza possano riconoscere la legittimità della stabile organizzazione coattiva, fatto alquanto improbabile, sorprende la leggerezza del governo italiano nell’affrontare il tema.
Primo, le varie Google, Apple e Facebook sono società di diritto statunitense che portano la loro base imponibile consolidata in tassazione negli Usa. Non tutta, perché prima di pagare le tasse al governo americano ottimizzano il carico fiscale con passaggi in società di nazionalità caraibica o localizzate in stati a bassa fiscalità. In sostanza si accordano con l’amministrazione Usa e versano un importo non inferiore a quello che farebbe scattare la caccia all’elusione. Tutto quello che non pagano negli Usa resta come utile distribuibile agli azionisti dei colossi della Silicon Valley. Il primo a non volere una digital tax è proprio il governo americano che considera “sue” le basi imponibili dei gioielli tecnologici Usa. Poi, va capito se le transazioni che vedono come protagonista un cittadino italiano siano effettivamente accadute in Italia. Prendiamo l’acquisto di una app dallo store di Apple. Un italiano attiva una connessione con lo store e perfeziona l’acquisto che avviene e si chiude negli Usa. La distribuzione della app si produce nella rete ma è una semplice consegna digitale di un bene comprato in un negozio, altrettanto digitale, californiano. Come può tassare questo acquisto l’Italia?Forse imponendo un dazio sul valore della app, ma il Wto lo vieta. Significa che la digital tax per poter funzionare necessiterebbe di una Onu del fisco che non c’è. Ecco perché resterà una boutade italiana.