Nell’ultimo anno più volte si è parlato della riforma del diritto del lavoro fortemente voluta dall’attuale Governo, ed in particolare delle nuove norme del c.d. Jobs Act, che recano, tra le altre cose, modifiche significative allo Statuto dei Lavoratori del 1970, con impatti rilevanti anche sul d.lgs. n. 196/2003, in materia di circolazione dei dati personali.
Lo scorso 23 settembre sono stati definitivamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale i quattro decreti del Jobs Act, incluso il discusso d.lgs. n. 151/2015, che modifica l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori sui controlli a distanza mediante strumenti elettronici.
La riforma ha impegnato a lungo le istituzioni coinvolte, in primis Governo e Parlamento, ma anche l’Autorità Garante della privacy. Le parti sociali hanno sostenuto una dura opposizione, non mancando di far sentire la loro voce, ma la stampa ha partecipato con sostanziale distacco.
La norma che modifica l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori in sostanza si divide in due momenti salienti.
Da un canto, viene ribadita la necessità di ricorrere agli accordi sindacali o ai nulla osta delle Direzioni territoriali del lavoro, laddove il datore di lavoro intenda adottare strumenti di controllo e monitoraggio dei movimenti e delle azioni dei lavoratori, quali ad esempio le telecamere, esattamente come è stato finora, precisando le finalità precipue che ne consentono l’installazione: ragioni legate ad esigenze organizzative e produttive, finalità connesse alla sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale. E qui la vera novità riguarda l’introduzione a livello legislativo della finalità di tutela del patrimonio aziendale.
D’altro canto, il legislatore chiarisce definitamente che l’utilizzo da parte dei lavoratori di strumenti elettronici, che servono al dipendente per compiere la prestazione lavorativa, così come gli strumenti per la registrazione degli accessi e delle presenze, non sono soggetti al previo accordo con le associazioni sindacali o con le Direzioni territoriali del lavoro. E anche qui la vera novità è solo nell’inciso finale, relativo agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
La novella introdotta con la riforma del Jobs Act chiarisce ulteriormente che “le informazioni raccolte secondo le nuove modalità sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalita’ d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal Codice Privacy”.
Tutto qui? Sì. Verrebbe da dire allora: molto rumore per nulla!
Le nuove norme infatti innovano solo con riferimento all’introduzione dei fini di tutela del patrimonio aziendale, con riferimento alla installazione di strumenti come le videocamere e avuto riguardo alla deregolamentazione di badge e controlli agli accessi aziendali. Per il resto, la precisazione volta ad escludere dagli accordi sindacali l’uso di PC, cellulari e tablet aziendali così come il riferimento alla necessaria informativa da rendere ai dipendenti di fatto poco aggiungono rispetto alle prassi già in vigore.
Inoltre, il chiaro riferimento ai limiti posti dal Codice Privacy e agli obblighi di informazione non fanno altro che dare nuovo vigore a quelle lungimiranti linee guida introdotte dal Garante per la privacy negli anni 2007-2008, invitando di fatto l’Autorità ad aggiornarle e se del caso a rinforzarle.
Le norme introdotte dal Jobs Act in materia di protezione dei dati personali sui luoghi di lavoro hanno un non so che di gattopardesco: innovano non cambiando in fondo molto.
Di certo sbaglia chi crede che con il Jobs Act sia adesso possibile estendere il regime dei controlli e delle investigazioni difensive sui luoghi di lavoro. Le regole, anche molto stringenti, restano e le tutele del lavoratore continuano ad essere garantite, certo la formulazione delle norme non è stata tra le più felici, ma adesso occorre far si che in sede interpretativa non si strumentalizzino le norme e non si abbassino le tutele.