Il 2015 è un anno simbolico nel mondo delle reti di tlc: siamo a metà strada rispetto agli obiettivi fissati dall’Agenda digitale europea 2020. È dunque necessario fare il punto della situazione soprattutto di come le politiche pubbliche per lo sviluppo delle infrastrutture di telecomunicazioni possano incidere per il raggiungimento di tali obiettivi. Un mercato, quello della tlc nel fisso che è profondamente cambiato nell’ultimo decennio, ma che ovunque continua a mantenere la dominanza degli ex monopolisti. L’infrastruttura di accesso, in assenza di reti alternative come il cavo, rimane un monopolio naturale e quindi l’incumbent è destinato a rimanere tale nel tempo. Lo spazio che la liberalizzazione del settore negli anni ’90 voleva creare a favore della concorrenza infrastrutturale nella telefonia fissa è poco rilevante e lo sarà ancora meno nel futuro. Ed è come se le politiche pubbliche di oggi con i loro fondi ed incentivi dovessero compensare l’errore politico di allora, ovvero di non aver fatto coincidere la liberalizzazione con la separazione della Rete del monopolista facendo concentrare la concorrenza sui servizi. Errore che ha comportato lentezze e ritardi nello sviluppo della Rete italiana per la fatica di rendere compatibili investimenti strategici di lungo periodo con la logica finanziaria e di business di aziende quotate e stressate dai risultati delle trimestrali. E, magari, anche stressate da dannosi e improduttivi leverage buy out. Il risultato è palese: l’Italia ha l’infrastruttura tra le più lente d’Europa. Va dato atto che nell’ultimo periodo si nota una ripresa seria degli investimenti. Ma, uno sviluppo pervasivo della banda ultralarga in termini di sistema-Paese, ha nuovamente bisogno del pubblico che interviene, sostenendo il mercato, con finanziamenti a fondo perduto al fine di promuovere una domanda capace poi di garantire un adeguato ritorno degli investimenti.
Di fatto, la necessità di stimolare gli investimenti in reti di nuova generazione non è una questione solo italiana, ma riguarda in diversa misura tutti i Governi che, in molti casi, intervengono direttamente nell’incumbent. Lo Stato, infatti, è presente nell’azionariato della maggior parte dei Paesi che hanno risposto meglio agli obiettivi dell’Agenda digitale europea. Il Belgio vede lo Stato possedere il 53,5 per cento di Belgacom Group – l’incumbent locale che ha garantito una copertura ad almeno 30 mbps al 98% delle case, esattamente come in Lituania, grazie al suo incumbent Teo Lt grazie a investimenti svedesi a loro volta 100% pubblici e al Lussemburgo, in cui il servizio ultraveloce è garantito da P&T, 100% pubblica che abbina offerte su linea fissa, mobile, satellitare e IPTV. Telia Sonera, la più vasta compagnia telefonica in Svezia, Finlandia ed Estonia è posseduta per il 37,3% dal governo svedese e dal 7,8% da quello finlandese. Telia Sonera possiede, inoltre, anche parte di Lattelecom, la compagna di bandiera della Repubblica Lettone posseduta al 51% proprio dal Governo. La Repubblica federale tedesca possiede il 14,3% di Deutsch Telekom, che a sua volta assorbe anche l’incumbent macedone e quello rumeno. In Spagna, data la stretta connessione di sistema con le Istituzioni, la presenza delle banche spagnole nell’azionariato di Telefonica (La Fondaciòn Bancaria La Caixa possiede il 5,25% e la BBVA il 6,25% di Telefonica) ha la stessa portata di un intervento pubblico diretto. Lo Stato francese possiede il 25% di Orange, mentre in Andorra la STA è totalmente pubblica e in Austria il Governo ha quasi il 30% di Telekom Austria. Lo Stato è molto presente anche in tutti i Paesi slavi come la Serbia, la Slovenia, Bosnia e Bulgaria (rispettivamente la BH Telecom e la Vivacom sono prettamente pubbliche), meno in Croazia dove l’operatore dominante è T-Hrvatski Telekom che è posseduto per il 51% da Deutschtelekom e per il 3,5% dallo Stato croato.
L’Italia ha il potere di esercitare il Golden power come da più recenti provvedimenti normativi ma si tratta infatti di un potere più che altro di reazione e di blocco, peraltro limitato. Ma non ha certo la forza che possono avere i Governi sopraccitati per persuadere le telco nazionali a privilegiare investimenti nazionali in modo pervasivo e anche in aree a fallimento di mercato.
Il contesto italiano impone, dunque, uno sforzo molto più importante e complesso per raggiungere gli obiettivi ambiziosi che il Premier si è posto con la Strategia nazionale banda ultralarga. Si tratta non solo di sforzi economici già in gioco con la delibera annunciata il 6 agosto scorso (che stanzia 2,2 miliardi di euro e ne promette ulteriori 1,3 miliardi), ma soprattutto uno sforzo manageriale importante che chiama le società e i manager pubblici a saper essere partner capace, strutturato e di lungo periodo del settore privato, mettendo rapidamente in piedi una execution di livello che permetta di passare dalle parole agli scavi. Una sfida stimolante che l’Italia saprà cogliere e che ci permetterà di scalare le classifiche europee, come già accaduto per il Sud d’Italia con il Piano Eurosud. Un’infrastruttura che getterà le basi per il turnaround dell’economia italiana e, grazie alla quale, nulla sarà più come prima.