LO STUDIO

Digital disruption, Italia al palo: solo il 4% delle imprese ci crede

Secondo uno studio CA Technologies le aziende innovative realizzano fatturati e profitti doppi rispetto ai competitor. Ma quelle tricolore sono ancora restie a usare social network e soluzioni web based

Pubblicato il 06 Ott 2015

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Integrare una strategia di trasformazione digitale sostenendo la metamorfosi dei processi interni, dell’organizzazione del lavoro e del rapporto con i clienti ha i suoi precisi vantaggi. Li ha misurati una ricerca internazionale realizzata dalla società di ricerca Freeform Dynamics e commissionata da CA Technologies. Ebbene, secondo i risultati dello studio che ha coinvolto 1442 soggetti, tra responsabili IT (31% del campione) e dirigenti d’impresa a cavallo di 16 mercati e nove settori merceologici, spostare davvero l’asse sull’innovazione comporterebbe in media il raddoppio del fatturato e addirittura una crescita del 250% dei profitti rispetto a quelli dei concorrenti meno inclino al cambiamento. Si tratta però di performance che riguardano solo un’esigua minoranza del campione preso in considerazione dell’indagine presentata stamattina a Milano da Vittorio Carosone, Sales & Partner Director di CA Technologies e non a caso intitolata “Exploiting the software advantage: Lessons from digital disrupters”.

Sono infatti proprio i cosiddetti digital disrupter quelli che, stravolgendo modelli organizzativi e di business, oppure debuttando sul mercato da nativi digitali, sono riusciti a fare il grande salto. Secondo le metriche della ricerca, parliamo di aziende che stanziano il 36% del budget IT sulla crescita digitale tout cout, con la previsione di aumentare la quota fino al 48% nel prossimo triennio. I digital disrupter hanno inoltre adottato in quattro casi su cinque strumenti per lo sviluppo agile delle applicazioni, con la gestione delle API (application programming inteface) per la creazione di applicazioni web nel 68% dei casi.

A livello mondiale, solo il 4% dei rispondenti al sondaggio ha dichiarato che il digitale è un elemento essenziale di tutti i processi aziendali. La percentuale sale al 6% se si considera la sola Europa, ma crolla all’1% limitando le dichiarazioni all’Italia (Paese in cui soltanto il 4% degli intervistati può entrare a pieno titolo nella categoria del digital disrupter, contro la media mondiale del 14%). C’è da dire però che in tutte e tre le scansioni geografiche, più della metà del campione sostiene che le attività digitali fanno parte di un programma strategicamente coordinato all’interno dell’organizzazione.

Analizzando più a fondo i risultati della ricerca, colpisce il ritardo delle imprese tricolori sull’adozione delle nuove tecnologie rispetto al potenziamento delle relazioni con la clientela. Il dato più evidente è che meno di un soggetto su dieci dichiara che i social network rappresentano un fattore critico nel rapporto con la customer base, quando invece in Europa e nel resto del mondo è fondamentale per il 18 e il 26% del campione coinvolto. Ma neanche le soluzioni Web based, l’Internet of things e ancor meno i wearable sembrano rivestire l’importanza che sta gradualmente venendo riconosciuta a questi strumenti fuori dalla Penisola. Solo in ambito mobile, l’Italia accorcia un po’ le distanze: il 20% dei rispondenti dice che l’engagement attraverso smartphne e tablet ha un ruolo critico, mentre per il 45% del campione nazionale è comunque importante ai fini dei risultati di business.

“Questo studio ha evidenziato disparità significative nei livelli di maturità complessiva delle iniziative digitali messe in atto dalle imprese italiane”, ha commentato Carosone. “Abbiamo riscontrato tra le più innovative una crescita consistente del fatturato e della fidelizzazione dei clienti, nonché un positivo impatto sugli utili e sul bilancio aziendale. Intimamente legato al concetto di trasformazione digitale è un impiego efficace dei software che diviene fattore di efficienza, competitività e successo”.

La vera differenza tra chi ha già adottato un approccio smart e chi invece è in transizione verso la digital transformation la si vede in effetti nelle aree di intervento: gli italiani hanno attivato iniziative nelle divisioni Product/Service Development (47%), nei Customer Services (42%), nella Workforce efficiency/effectiveness (36%), nel Sales & Marketing (34%) e nella Supplier/partner integration (33%) in misura non troppo dissimile da quanto fatto a livello globale, ma il divario resta aperto sul fronte delle Operations/delivery, vera cartina di tornasole per questo tipo di sviluppo e ambito in cui l’Italia raggiunge il 25%, contro il 43% del campione globale.

Non è dunque un caso che la Penisola, pur essendo collocata nel G7, si piazzi al decimo posto per tasso di penetrazione degli elementi che rendono le imprese digital disrupter (sintetizzati da Freeform Dynamics con il DEI, Digital Effectiveness Index), preceduta dalla Svizzera e davanti all’Australia. Ai primi posti della classifica ci sono gli Stati Uniti, il Canada e la Germania. Ma se si considera la percentuale di imprese ad alto tasso di innovazione, l’Italia con il suo 4% scende al 16esimo posto, mentre al primo si confermano gli Usa (26%), seguiti da India (25%) e Spagna (18%).

I settori più reattivi alla digital transformation? Quelle delle telco (con una percentuale di disrupter pari al 23%), del retail (16%), dell’elettronica di consumo (16%) e dei servizi finanziari (14%). Decisamente più lenti sono la Pubblica amministrazione (10%) e l’industria del packaging dei beni di consumo (8%).

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