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Smart working, Sacconi: “Più duttilità e meno conflitti. Una rivoluzione obbligatoria”

L’ex ministro del Lavoro: “Accelerare sui contratti e sulle norme che definiscono i rapporti fra lavoratori e impresa. In soffitta le vecchie competenze e i sindacati non rinuncino ai vantaggi della modernità”

Pubblicato il 09 Nov 2015

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«Senza il parametro del digitale nella testa non si va da nessuna parte. Il mondo del lavoro sta già profondamente cambiando ed è destinato a trasformarsi sempre di più». Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro, presidente della Commissione Lavoro del Senato non ha dubbi sull’impatto dirompente quanto inevitabile che le nuove tecnologie hanno e avranno ancor di più sul mondo del lavoro e sullo “svecchiamento” della PA. E per questa ragione ritiene fondamentale non solo una forte attenzione al tema da parte del governo ma anche un’accelerazione sul fronte delle iniziative che mirano a innovare contratti, norme e concreti rapporti fra azienda e lavoratore. “La sfida non può essere elusa”, dice Sacconi. “E bisogna smetterla di vedere problemi dove non ci sono”.

A cosa si riferisce in particolare?

La questione dei controlli a distanza da parte del datore di lavoro, ad esempio, e tutto il dibattito che c’è stato sull’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori: l’essere monitorati da una videocamera o profilabili attraverso i device aziendali non può diventare un problema se davvero si vogliono cogliere le opportunità delle tecnologie. Ben altre e importanti sfide ci si porranno di fronte come quella delle macchine che andranno a sostituire l’intelligenza del lavoratore. Abbiamo assorbito positivamente la prima rivoluzione perché sostituiva la fatica fisica, ma ora si va verso un futuro in cui gli algoritmi saranno capaci di sostituire la responsabilità umana. Questa sì che e’ una problematica seria dato che spesso si desidera una sorta di fuga dalla responsabilità. Basta pensare alla diagnostica medica. Ed è su queste dinamiche che bisognerebbe concentrarsi più che inseguire le vecchie paure sul controllo da parte dei datori di lavoro.

Dunque siamo alle porte di una rivoluzione epocale.

Le nuove tecnologie mettono potenzialmente in discussione le vecchie competenze e tutto il tradizionale impianto di regolazione del rapporto di lavoro. Il lavoro subordinato si è fondato su tre elementi: predeterminazione rigida dell’orario del lavoro, di una postazione fissa e del salario, o almeno di larghissima parte di esso. Tutto ciò viene superato dalle opportunità che le tecnologie offrono al modo di lavorare. La postazione di lavoro si smaterializza, l’orario effettivo di lavoro può in teoria spalmarsi nell’arco delle 24 ore e il lavoro si caratterizza molto di più per il risultato per cui il salario si collega necessariamente ad esso.

Il Jobs Act risponde a queste istanze?

Il Jobs Act può essere ritenuto la regolazione più evoluta della vecchia dimensione. È evidente che siamo in una fase di transizione e che dobbiamo pensare a investire nelle competenze e a riregolare il rapporto di lavoro nel momento in cui si producono attività a distanza.

E come?

Qualche norma leggera, che il Governo si appresta a proporre con un collegato alla legge di stabilità, e tanta contrattazione. Bisogna utilizzare gli accordi aziendali ma anche quelli individuali nell’ambito dei principi dell’ordinamento, ossia la giusta retribuzione, la sicurezza ed un orario compatibile. Nell’ambito di essi dobbiamo consentire un adattamento duttile tra le parti secondo una visione comunitaria dell’impresa, luogo di cooperazione più che di conflitto. Per esempio la questione dell’orario: per il lavoratore è decisamente più comodo spalmarlo in momenti diversi della giornata, approfittando anche del tempo recuperato dagli spostamenti verso e dal luogo di lavoro. Ma non deve accadere che si debba essere a disposizione per 24 ore. Quindi affidiamoci alla contrattazione: l’articolo 8 della manovra 2011, che io ho fortemente voluto, è utile anche a questo scopo perché definisce il primato degli accordi di prossimità con cui impresa e lavoratori possono congiuntamente valorizzare le tecnologie in termini di reciproca soddisfazione al di la’ delle rigide regole omogenee della legge o del contratto nazionale. E la formazione diventa il cuore dei diritti nel lavoro, una sorta di postmoderno art.18, coincidente peraltro con l’interesse dell’impresa ad avere collaboratori preparati.

Secondo lei i sindacati sosterranno la trasformazione?

Di sicuro i lavoratori non possono che essere favorevoli a questa evoluzione del lavoro. Mi auguro dunque che coloro che li rappresentano non seguano la solita logica per cui, imposta una regola generale e uniforme, si produca l’involontario esito di mortificare proprio il lavoro. E si rinunci così ai vantaggi della modernità. Insomma non è più tempo di usare metodi arretrati per rappresentare il mondo del lavoro, anche perché ci sarebbe un inevitabile conflitto proprio tra rappresentanti e rappresentati.

La sfida deve riguardare anche la PA?

La PA a maggior ragione. Il terziario è il primo, immediato, luogo delle tecnologie e il riorientamento dai procedimenti ai risultati dovrebbe incoraggiarne l’impiego. Tuttavia, tanto il Common Law si è rivelato funzionale alle nuove tecnologie, quanto il diritto amministrativo è disallineato perché rigido. È importante che il governo nell’attuare le deleghe della legge Madia incroci i decreti delegati con i programmi di digitalizzazione. Guai se l’esercizio delle deleghe fosse indifferente e indipendente rispetto ai percorsi di reingegnerizzazione dei processi che le tecnologie inducono.

Secondo lei quali sono i maggiori ostacoli sul cammino?

Un tema delicato è quello della sicurezza del lavoro. Si possono tipizzare le regole della sicurezza anche in casa, ma se viene svolto in altri luoghi, ad esempio nella sede del cliente, in auto o in altri luoghi, è necessario individuare modalità di tutela e della salute e della sicurezza più prossime al lavoro indipendente che a quello dipendente, distinzione peraltro che le tecnologie già oggi mettono in discussione. E finalmente ripensare il Testo Unico sulla sicurezza in funzione di un approccio sostanziale ovvero meno fondato sugli adempimenti formali, come ci insegna il modello svedese suggerito dalla società di medicina del lavoro.

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