«Lo smart working è una delle sfide più importanti che il sindacato si trova a combattere. Su questo terreno, infatti, si possono e si devono conciliare diritti e innovazione».
Ne è convinto Salvo Ugliarolo, segretario generale della Uilcom-Uil, che spiega come si stanno attrezzando le organizzazioni per vincere questa sfida.
Le nuove tecnologie mettono potenzialmente in discussione tutto il tradizionale impianto di regolazione del rapporto di lavoro e, ovviamente, le modalità stesse del lavoro. In questo contesto come devono cambiare i sindacati?
I sindacati stanno già cambiando. La massiccia diffusione delle nuove tecnologie ci ha naturalmente portati a riflettere su come cambia il lavoro, l’organizzazione e i diritti.
E la conclusione a cui siete arrivati?
Parlare di conclusione è impossibile. L’innovazione è un processo in fieri che richiede attenzione costante, aggiornamento e capacità di visione. Quello che, però, possiamo già dire è che se è vero che cambia il contesto, non devono cambiare le tutele e la garanzie per i lavoratori.
Ma è pensabile non modificare un corpus di diritti, pensato per un epoca dove si lavorava esclusivamente in ufficio e con un orario di lavoro predefinito?
È proprio qui il cuore della sfida sindacale: l’innovazione deve valere per il contesto organizzativo e tecnologico ma anche per le garanzie del lavoro. Mi spiego: non è possibile che un lavoratore “agile”, che quindi ha la possibilità di mixare lavoro in mobilità e in ufficio con orari flessibili, venga in qualche modo penalizzato negli avanzamenti di carriera, nei diritti di maternità/paternità o – ancora peggio – nella retribuzione. Quello che voglio dire è che se il lavoro diventa più flessibile, altrettanto non devono diventare i diritti che, anzi, si devono rafforzare per dare la legittimità e organicità all’innovazione.
Andiamo nel concreto. Un esempio?
Il lavoro agile impone che i dipendenti siano assicurati Inail non solo sul luogo di lavoro, ma anche fuori. E questo fa lievitare i costi per le aziende, soprattutto quelle di dimensioni più piccole, che potrebbero essere tagliate fuori dalla rivoluzione digitale. Un rischio che l’Italia, in cui le Pmi sono l’architrave del sistema produttivo, non può permettersi pena un’ulteriore perdita di competitività. In questo contesto diventa centrale il ruolo di mediazione del sindacato che dovrà, sempre più saper concililiare i diritti anche con le esigenze di produttività dell’azienda.
Esiste davvero un rischio di ridimensionamento dei diritti?
Il rischio c’è. E dunque è necessario rivitalizzare il confronto e la concertazione tra le parti sociali per agganciare il treno dell’innovazione. Lo smart working, difatti, non riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro ma la società nel suo complesso. Non si tratta solo di riorganizzare le fabbriche e gli uffici, si tratta di riorganizzare l’assetto socio-economico rendendo accettabile e sostenibile il “work-life-balance”. C’è un lavoro soprattutto culturale da cui il sindacato non si può sottrarre.
Ma il sindacato, oggi, ha gli strumenti per fare questo? L’impressione è che spesso le organizzazioni si trovino a difendere un mondo che non esiste più.
Niente di più sbagliato. Sono i sindacati ad essere più vicini ai lavoratori e ad accogliere i loro bisogni. Quindi rispondo sì, senza mezzi termini. Si tratta però di trovare luoghi, non solo in azienda, dove sintetizzare questi bisogni e aprire il confronto con istituzioni e associazioni datoriali.
Fino ad oggi lo smart working è stato scelto, laddove possibile, soprattutto da madri-lavoratrici o da malati cronici. Non si rischia un nuovo ghetto?
È un rischio concreto, senza dubbio. Ecco perché dico che la sfida è soprattutto culturale: bisogna avere il coraggio di portare avanti un cambiamento sistemico nelle nostra concezione del lavoro.
In che senso?
Quello che conta – laddove è possibile, dato che i lavori non sono tutti uguali – è la produttività non l’orario di lavoro. Chi esce dal lavoro a mezzanotte non è detto che sia più produttivo di chi esce alle sei. L’esigenza di riappropriarsi di uno spazio “altro”, rispetto al lavoro, deve diventare un’esigenza di tutti: se continuiamo a considerare, ad esemopio, le donne come uniche destinatarie di politiche che permettano di occuparsi del lavoro e della famiglia allo stesso tempo, lo squilibrio nella distribuzione dei lavori di cura all’interno della famiglia rimarrà inalterato e, con esso, la disparità di genere della nostra società. La parola chiave è “sostenibilità”: organizzazione del lavoro sostenibile, città sostenibili, vite sostenibili. È uno sforzo propositivo a cui dovremmo trovare il modo di partecipare tutti, dalla politica ai manager aziendali, dai ricercatori ai programmatori. Apriamo la strada verso l’innovazione creando dibattito, stimolando la discussione e le idee. I grandi cambiamenti sono sempre collettivi.
Tornando al concreto. Ci sono esempi che, da sindaclista, si sente di proporre come best practice?
Telecom Italia ha avviato un programma di smart working. Un progetto ambizioso che punta a valorizzare il lavoro e la qualità della vita delle persone attraverso la riorganizzazione degli spazi, dei modi di lavorare e del rapporto tra capo e collaboratore. Viene gradualmente superato il concetto di postazione fissa, che non significa non avere la propria scrivania, ma utilizzare una serie di altri spazi o altre sedi dove poter scegliere di svolgere la propria attività. Mi pare un ottimo modello da seguire per l’Italia che vuole cambiare.