In questi anni di difficoltà il tema della start up, e soprattutto delle start up innovative, si è progressivamente imposto come uno degli argomenti chiave del dibattito di politica industriale. La tesi in fondo è semplice: per far ripartire il sistema non basta distribuire incentivi alle imprese esistenti perché facciano nuovi capannoni. Serve invece innovare.
Serve innalzare i termini di competitività del sistema-paese attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie, di nuove idee di mercato, di nuovi modelli organizzativi. Serve quindi favorire l’accesso al mercato di nuovi soggetti che siano in grado di dare propulsione al sistema tramite lo sviluppo di nuovi progetti. Che può fare lo Stato, o in generale il “pubblico”, per favorire la nascita e lo sviluppo di start up, e in particolare di start up innovative? In questi anni, in Italia, comunque qualcosa in questa direzione è stato fatto, sia sul fronte fiscale che su quello degli incentivi. Uno strumento potenzialmente efficace è stato però finora trascurato: il procurement pubblico, cioè il modo con cui la pubblica amministrazione entra nel mercato per acquistare beni e servizi. L’argomento è delicato, visto ciò che ogni giorno leggiamo nelle pagine di cronaca. Ma limitare il problema delle modalità di acquisto della PA a un semplice elemento di legalità rischia di essere fuorviante.
Per come oggi utilizzati, gli attuali processi di gara portano a privilegiare l’acquisto di beni e servizi già presenti sul mercato e a favorire gli operatori maggiormente strutturati a discapito dei nuovi entranti. Questa tendenza va invece contrastata. Gli strumenti per farlo già esistono, sia all’interno della normativa nazionale in materia di appalti, sia facendo riferimento alle indicazioni date dalle nuove direttive europee in materia di appalti pubblici. Si tratta solo di operare.