Il piano del governo per la banda ultra larga suddivide il territorio nazionale in 94mila aree. Una composizione troppo frammentata, che scoraggia la partecipazione dei privati alle gare e rende difficile la programmazione tecnica. I dubbi di compatibilità con la disciplina degli aiuti di Stato.
94mila aree per la banda larga
Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio Renzi ha ribadito l’impegno del governo per lo sviluppo della banda ultralarga in Italia, indicato come uno degli obiettivi qualificanti della sua azione. Si fa così seguito allo stanziamento di 2,2 miliardi di euro deciso agli inizi di agosto e alla delibera del Cipe 65/2015 che definisce i termini operativi per il prossimo anno. A questi atti del governo si è aggiunta nelle ultime settimane una più chiara volontà di Enel di partecipare alla partita, in forme ancora in gran parte da chiarire, attraverso la creazione di una newco dedicata. La campagna d’autunno per la banda larga è quindi in pieno svolgimento.
Vediamo dunque novità e punti delicati. Lo sviluppo prenderà strade diverse, con operatori e forme di sostegno pubblico differenti a seconda delle aree territoriali del paese. In quelle a maggior potenziale di ritorno privato (A e B), i contributi pubblici non saranno possibili, in base alla disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, o lo saranno in forme e modi limitati. Oggetto del primo stanziamento del governo saranno invece le aree dove gli operatori privati potrebbero intervenire solamente con un sostanziale contributo (70 per cento) in conto capitale da parte pubblica, oppure quelle in cui i privati non sarebbero disponibili all’investimento neanche a queste condizioni (D), cioè le aree a fallimento del mercato. Sono anche le aree per le quali Enel ha dichiarato un proprio interesse a partecipare.
Il passaggio cruciale riguarda allora l’individuazione delle aree C e D a fallimento di mercato per le quali gli stanziamenti di 2,2 miliardi sono utilizzabili senza infrangere il divieto di aiuti di stato. E qui le cose si fanno complicate e la strada percorsa dal governo potrebbe rivelarsi mal disegnata. Il master plan del governo definito nei primi mesi dell’anno, infatti, suddivide il territorio nazionale in oltre 94mila aree. La procedura descritta nella delibera del Cipe richiede che, in base ai piani di investimento degli operatori, per ciascuna si verifichi se esistono progetti di sviluppo ultra-broadband, inserendole quindi in una delle quattro classificazioni (A-D) e definendo forme di sostegno pubblico e obiettivi (connessioni a 100 Mbps o a 30 Mbps). Dopo un ulteriore round di verifica con gli operatori, si procede alle gare per l’assegnazione dei contributi pubblici o all’intervento diretto (aree D) da parte dello Stato.
Una mappa a macchia di leopardo
Non è ragionevole organizzare gare per ciascuna singola area, occorrerà quindi aggregarle in cluster omogenei dal punto di vista di obiettivi e strumenti di intervento. Il risultato sarà molto probabilmente “a macchia di leopardo”: anche grandi comuni come Milano e Roma hanno infatti alcuni quartieri che, per difficoltà di connessione o stato della domanda, non risultano attraenti per gli operatori e che finiranno nella classe C o D. I cluster, necessariamente, assomiglieranno a una fetta di gruviera.
Appare difficile immaginare quale sia l’attrattiva di un simile piano per i privati, che comunque nelle aree C (a fallimento di mercato) devono contribuire con il 30 per cento all’investimento. E difficile è anche immaginare la fattibilità tecnica e logistica dello sviluppo di segmenti così spezzettati, che non sono definiti in base all’architettura delle reti di telecomunicazione, ma a una ripartizione “a priori” in un numero molto elevato di aree elementari.
Sarebbe stato meglio partire da una ripartizione in aree territorialmente più omogenee (ad esempio, gli 8mila comuni o le 10.500 aree di centrale), verificando per queste se esiste un interesse privato all’investimento e classificandole quindi nelle categorie A-D con diverse forme di intervento pubblico. Questo approccio avrebbe comportato moderate forme di sussidio incrociato tra zone più e meno profittevoli all’interno di un comune o di un’area di centrale, che tuttavia non sarebbero emerse esplicitamente. Partire dalla disaggregazione territoriale più spinta delle 94mila aree, invece, rende esplicita la composizione eterogenea di cluster territoriali e impedirebbe la definizione di forme di intervento pubblico a quel livello.
Non intendiamo suggerire un modo di aggirare la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, ma semplicemente di riconoscere che le condizioni di profittabilità degli investimenti sono diverse a livello territoriale, e lo sono anche all’interno di ciascuna delle 94mila aree tra vie e unità abitative diverse. Per cui anche una ripartizione apparentemente molto spinta contiene al suo interno forme di compensazione e sussidio incrociato. Si tratta di scegliere quindi una dimensione delle aree elementari che rispecchi le logiche tecniche ed economiche di sviluppo delle reti.
L’approccio seguito sulla base di una ripartizione territoriale così spinta rischia invece di condurre a due alternative secche: gare per cluster, coerenti sotto il profilo degli aiuti di stato, ma che vanno deserte per la composizione territoriale troppo frammentata; o gare territorialmente più unitarie, che permettono una programmazione tecnica e un miglior ritorno economico ai privati, ma che non risultano compatibili con la disciplina degli aiuti di Stato.
Per un miglior funzionamento delle stesse gare, sarebbe poi necessario definire a priori il tipo di regolazione a cui sarà assoggettato chi costruirà la rete. Per la realizzazione della reti nella aree D, contribuite al 100 per cento, la tariffa di utilizzo delle infrastrutture dovrebbe essere pari al costo, mentre nelle aree C? Se il contributo privato sarà almeno al 30 per cento, come saranno fissate le tariffe? Ovviamente, ciò avrà un effetto sulla redditività del servizio e quindi, indirettamente, sulle stesse offerte di gara.
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