I Big data possono portare alla distruzione dell’economia di mercato creando nuovi monopoli e discriminazioni e in ultima analisi provocando il collasso del capitalismo? È uno scenario estremo, ma i semi della crisi sono presenti nei trend attuali, sostiene il Prof. Andrew Odlyzko, matematico dell’Università del Minnesota, specializzato sull’analisi degli aspetti sociali di Internet. Lo abbiamo incontrato a Roma in una conferenza organizzata dall’Intergruppo parlamentare per l’innovazione tecnologica.
Che cosa cambia oggi rispetto alle politiche di prezzo differenziato che già esistevano in passato?
La nozione di prezzo di mercato è la base dell’economia occidentale. Un prezzo fissato solo in base alla disponibilità del compratore a pagare è un paradigma del tutto diverso. La price discrimination ha un noto esempio nelle differenziazioni di prezzo introdotte dalle Ferrovie americane nel 19mo secolo ma solo oggi la tecnologia permette una price discrimination sofisticata. La navigazione in Rete fa sì che lasciamo costantemente i nostri dati online a beneficio delle aziende che hanno gli strumenti tecnologici per raccoglierli e analizzarli, creando poi profili degli utenti da cui individuano la propensione di ciascuno a spendere. E così le aziende chiedono di più a chi capiscono che è disposto a pagare di più. I tradizionali meccanismi di aggiustamento tra domanda e offerta sono sovvertiti e si introducono forti elementi di iniquità. Il futuro rischia di assomigliare a un’economia orwelliana in cui una scatola di aspirine costa un dollaro a un nullatenente, 1.000 dollari a un miliardario. Ovviamente questo è uno scenario estremo, ma il rischio di una deriva esiste.
Lei ha tanti esempi di come la “sana” economia di mercato sia messa in pericolo.
Sì. In America l’opinione pubblica è stata colpita dall’aumento di prezzo dei farmaci generici e dallo scandalo Volkswagen. Nel primo caso, è chiaro il tentativo di creare un monopolio: i produttori più grandi ne acquisiscono altri più piccoli consolidando il mercato e si accaparrano diritti esclusivi sui brevetti, così alzano i prezzi. Nel secondo, si evidenzia la propensione di molte aziende a “barare” o almeno ad agire con opacità. Negli Stati Uniti è molto noto anche l’accordo con cui aziende della Silicon Valley si sono promesse di non “sottrarre” ingegneri e tecnici l’una all’altra – poi finito in una class action perché contrario alle regole antitrust. Persino nelle aste per lo spettro posso dirle che le telco cercano di mandarsi segnali cifrati per accordarsi sulle offerte. Tutti sembrano concordare sul fatto che il libero mercato è un modo sano ed efficace di far funzionare l’economia, ma in realtà a nessuno piace: le aziende preferiscono aggirarlo.
Lei ha addirittura scritto che il meccanismo della price discrimination abbatte le distanze tra capitalismo e comunismo.
Sì perché entrambi così vogliono estrarre valore dai ricchi, il comunismo per redistribuire la ricchezza alla comunità, il capitalismo per creare profitto. Per questo il volo o la camera d’hotel last minute possono avere un prezzo stracciato, ma anche esorbitante se il compratore ha disperato bisogno di quel biglietto o di quel pernottamento. Ma è giusto, per tornare all’esempio di prima, che l’aspirina costi un dollaro a un povero e mille dollari a Bill Gates? Negli Usa si discute molto del fatto che i farmaci con obbligo di ricetta costano molto più che in altri Paesi con potere d’acquisto inferiore. Ecco che la parte del motto comunista che dice “Prendere da ciascuno secondo le sue possibilità” diventa anche il mantra del capitalismo! E in entrambi i casi gli obiettivi vengono perseguiti tramite la distruzione della privacy.
Anche la tecnologia è asservita alla price discrimination secondo lei: possiamo arrivare all’estremo di affermare che è questa la molla del progresso tecnologico?
Senz’altro! Non è esagerato dire che molte delle innovazioni tecnologiche – e anche molti dei nuovi modelli di business – nascono ai fini della raccolta e analisi dei dati e della price discrimination. E la logica del profitto si è spinta così in là da non legarsi più alla stimolazione dell’imprenditorialità: nei Paesi Ocse gli investimenti in rapporto ai profitti sono in calo. Colossi del pari di Google, Apple o Microsoft hanno contanti per svariati miliardi e i loro investimenti sono nulla al confronto.
Lei cita spesso l’erosione della privacy. Nel suo scenario è un tutt’uno con le questioni antitrust.
Io penso che l’assalto alla privacy da parte delle aziende private sia più preoccupante delle forme di controllo da parte dei governi perché non mira a sapere che cosa dicono o fanno i consumatori, ma solo a catturare il loro denaro. Ma per differenziare i prezzi è necessario invadere la privacy. Intanto le aziende che hanno i Big data diventano sempre più forti sul mercato, quelle che non sanno sfruttarli restano indietro. I dati diventano una barriera di ingresso mentre si creano nuovi monopoli, con quei rischi di collusione di cui abbiamo già parlato. E non dobbiamo pensare solo ai colossi come Google o Facebook, che tra l’altro al momento offrono servizi gratuiti e quindi, pur facendo raccolta e analisi massiccia dei dati, non usano la price discrimation; ci sono tanti altri player dei Big data e della price discrimination, grandi e piccoli, in diversi settori economici.
Sembra un disastro, non c’è soluzione?
Certo, io credo nel progresso dell’economia. Ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte ai rischi. E la soluzione è semplice: più regulation. Gli Usa sono noti per l’approccio light touch ma a Washington il vento sta cambiando e le authority sono propense a imporre più regole per mitigare gli effetti che i nuovi trend possono avere sul libero mercato. Non sarà nell’immediato futuro, ma mi aspetto un intervento regolatorio più forte per ricondurre le regole del mercato sui binari di un più “sano” funzionamento e di un trattamento “equo” dei consumatori.