Le prime avvisaglie di un equilibrio che inizia a scricchiolare si sono avute con la vicenda Been Choice, l’ad blocker prima ammesso, poi sospeso e poi di nuovo riammesso nell’app Store di Apple, che riconosce un “voucher” ai clienti che accettano di ricevere pubblicità sugli smartphone. Un altro segnale è stata la sentenza della Corte di Giustizia europea sul “Safe Harbor”, che ha di fatto invalidato l’accordo, datato 2000, per riconoscere le garanzie offerte dagli Usa sul trattamento dei dati. Una sentenza che impone la revisione degli strumenti attraverso i quali le società americane che gestiscono dati sensibili da e per l’Europa possono conseguire le certificazioni necessarie a proseguire il loro business, allo stesso modo delle società europee che hanno basi in Usa. Si tratta di due “sintomi” che lasciamo capire, insieme al percorso accidentato del negoziato per la revisione della Data protection directive a Bruxelles, quanto il tema dei data economics sia destinato a cambiare l’interazione tra i player del Web.
La prospettiva che si sta aprendo è quella dell’Internet 3.0, in cui i protagonisti saranno sempre più il web semantico e l’intelligenza artificiale, quindi i big data, anche e soprattutto sul versante economico. Non si parla soltanto dei dati riconducibili all’interazione delle persone con la rete, ma anche del valore generato dai “processi”. A essere rimesse in discussione saranno le modalità con cui tutti gli attori, dai giganti di Internet agli operatori, dalle aziende ai singoli utenti, potranno interagire per creare un valore aggiunto.
A parlarne con CorCom è Isabella De Michelis, ceo e fondatrice di High Pulse LLC, high tech company con sede in Svizzera attiva nell’ideazione e nello sviluppo di software e strategie digitali per Internet. Tra i suoi trascorsi c’è un’esperienza più che ventennale nel management di colossi dell’hi-tech, da Qualcomm a Cisco, e in grandi compagnie delle tlc, da Iridium-Motorola a Elsacom-Finmeccanica a Telespazio-Stet.
De Michelis, che idea si è fatta della vicenda Been Choice?
Al di là delle valutazioni di merito, credo che sollevi una questione interessante: dietro al concetto di privacy non c’è più soltanto il concetto della protezione giuridica come diritto fondamentale. Inizia a emergere una connotazione economica. Ed è allora prevedibile che su questa evoluzione i decisori politici e i legislatori, le realtà industriali e tutti i player della filiera possano presto necessitare di un tavolo per affrontare costruttivamente la questione.
Quello dell’ad blocking in ogni caso è un fenomeno di cui negli ultimi tempi si parla molto
E’ vero. La diffusione di soluzioni di ad blocking continua a crescere. Direi che è un effetto naturale considerando che spesso la pubblicità online è troppo invasiva e anche relativamente poco attinente per l’utente. Manca purtroppo di un elemento importante, un elemento “dinamico” di personalizzazione, che può solo essere ottenuto con una maggiore consapevolezza, lato utente, del proprio valore e quindi del proprio potere negoziale in rete. L’obiettivo di pubblicitari, venditori e piattaforme è di arrivare il più vicino possibile all’utente per ingaggiarlo, ma le tecnologie con le quali si prova a ottenere questo risultato non riescono a garantire un livello di personalizzazione sufficiente. Non ancora.
E’ questo a generare fastidio nei consumatori?
Oggi risulta più semplice e conveniente per un utente bloccare tutta la pubblicità indiscriminatamente. A mio avviso i consumatori potrebbero essere disposti ad accettare la pubblicità che ricevono attualmente, o anche di più, a condizione che si intercettino davvero le loro attese, gusti e inclinazioni. Nella catena di Internet l’utente-consumatore è l’asset intorno al quale avviene tutta la creazione del valore. Trovo corretto dunque pensare che nell’evoluzione dei modelli di business su Internet al consumatore venga restituito un ruolo più importante che di mero fruitore di servizi.
Come sarà possibile arrivare a questo risultato?
Il centro del ragionamento è nel passaggio dal principio squisitamente giuridico della protezione dei dati al principio economico della loro valorizzazione, inclusa la fase antecedente il processamento per finalità analitiche. Le implicazioni sono molto significative, e andranno ponderate attentamente. Il tema dei diritti su Internet è di grande attualità e tocca molte sensibilità. Cominciare una riflessione di policy su questi argomenti è importante, ma rimango convinta che saranno le tecnologie e i modelli di business che renderanno possibile il passaggio dalla teoria alla pratica.
Come sono destinate a cambiare le regole?
Partendo dal principio che l’integrità e la confidenzialità delle comunicazioni di una persona, inclusa la sua identità reale, debbono essere protette e garantite per legge quale diritto fondamentale e che il consenso espresso rimanga lo strumento preferenziale per comunicare online la propria decisione di condividere o meno i propri dati verso terze parti, è altresì ipotizzabile che se nuovi meccanismi e strumenti lo consentiranno, gli utenti potranno scegliere se beneficiarne o meno. L’innovazione risiederà nell’offrire agli utenti una opzione sicura, dinamica e selettiva che abiliti una nuova tipologia di negoziazione verso gli attori della Rete.
Come si inserisce la vicenda del Safe Harbor in questo quadro?
Il Safe Harbour è in fase di rinegoziazione e la Commissione Europea è molto impegnata su questo fronte così come i Paesi membri e gli Stati Uniti. Il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali e alla privacy, che sta al centro della posizione europea così come ribadito anche nella Sentenza della Corte di Giustizia – rimarrà un punto cardine del nuovo accordo. Personalmente non credo che elementi diversi da quelli giuridici possano trovare collocazione nell’ambito del rinnovo del Safe Harbour. Ma ciò non significa che il tema dei “data economics” non sia stato individuato come una alta priorità e che un ripensamento strategico di privacy economics non sia già stato avviato a livello europeo.