Si è chiusa nella giornata di ieri la consultazione pubblica della Commissione europea sul ruolo delle piattaforme digitali, prima tappa verso una possibile stretta normativa di Bruxelles su Google e consimili. Il fascicolo, vale la pena precisarlo, presenta per ora contorni assai indefiniti. Non è insomma ancora chiaro se e come l’esecutivo comunitario intenda muoversi su un terreno sdrucciolevole per antonomasia.
C’è tuttavia un’eccezione. Vale a dire l’intenzione ventilata dalla Commissione nel suo piano sul Digital Single Market – e corroborata dal testo della consultazione – di proporre l’estensione agli intermediari online (cioè le piattaforme) della responsabilità legale per i contenuti illeciti pubblicati da terzi. Responsabilità da cui attualmente essi sono esenti, purché riempiano determinate condizioni, secondo quanto statuito alla direttiva sul commercio elettronico. Sull’eventuale modifica legislativa pesa naturalmente il pressing di diversi Stati membri in allarme per la proliferazione della propaganda jihadista sulla Rete, social network in testa.
Ma le implicazioni negative, avvertono alcuni osservatori, potrebbero essere vaste, non da ultimo sul fronte della tutela della privacy e della libertà d’espressione. Al punto da aver messo sul chi vive l’industria digitale. E ad un tempo aver fatto infuriare gli attivisti per i diritti della Rete. Spiega Jen-Henrik Jeppese del Centre for Democracy and Technology che il più penalizzato risulterebbe proprio l’ecosistema digitale europeo le cui aziende, più piccole e meno attrezzate, non disporrebbero in larga parte delle stesse risorse e dei mezzi legali dei giganti americani per fare fronte a nuovi obblighi.
“Aumenterebbero i rischi e le barriere precisamente per quegli imprenditori e quelle startup che i decisori europei sono impazienti di promuovere nel quadro del Digital Single Market”, fa notare Jeppese. Questo, avvertono le associazioni per i diritti digitali, rischia di rafforzare quel potere di mercato dei colossi statunitensi che l’Europa si è ripromessa di contenere.
I rischi per la privacy e la libertà di espressione, si diceva, sono anche sensibili. Il quadro normativo comunitario stabilisce che le piattaforme online (motori di ricerca, social media, siti di condivisione di video, app store, ecc.) non sono responsabili per la pubblicazione o trasmissione di contenuti illegali generati da terzi, a patto che non ne siano a conoscenza e che s’impegnino a rimuoverli dietro debita notifica. L’introduzione di una sorta di “dovere di diligenza” per gli intermediari, come lo definisce la Commissione, comporterebbe che essi di fatto siano obbligati a sorvegliare e filtrare in maniera capillare le attività dei propri utenti per non incorrere in possibili sanzioni. Con la probabile proliferazione di contenziosi legali di fronte al fatto che nelle maglie della più stringente censura preventiva finirebbero inevitabilmente anche contenuti legali.
L’attuale sistema di limitazioni (ed esenzioni) alla responsabilità degli intermediari digitali “è stato uno degli elementi trainanti dello sviluppo dei servizi online” e deve “continuare a sorreggere l’azione dell’Ue”, hanno scritto in una recente lettera aperta alla Commissione le associazioni europee DigitalEurope, Ecta e Ccia, le quali rappresentano rispettivamente l’industria IT, i piccoli operatori telecom e gli Ott. A conferma delle preoccupazioni che attraversano i diversi settori dell’industria. Che propende, invece, per forme di cooperazione volontaria con i governi o di autoregolazione, una strada già battuta negli ultimi mesi, in luogo di obblighi calati dall’alto.
La Commissione ritiene viceversa che “la disattivazione dell’accesso a contenuti illeciti e la rimozione di questi da parte dei prestatori di servizi di hosting può rivelarsi un processo lungo e complicato, con il rischio che siano rimossi per errore anche contenuti che sono invece leciti”. Di qui l’opportunità “d’imporre agli intermediari di esercitare una maggiore responsabilità”, si legge nella strategia sul Mercato Unico Digitale. I primi dettagli su come Bruxelles intenda procedere emergeranno in tutta probabilità con il piano di riforma della direttiva sul commercio elettronico su cui la Commissione potrebbe alzare il sipario già nel primo semestre del 2016.
Al momento è invece difficile pronosticare se e come l’esecutivo comunitario interverrà su altri aspetti caldi del dossier “piattaforme”. Ad esempio su un nodo controverso quale quello della trasparenza dei risultati dei motori di ricerca. Su cui Francia e Germania, spalleggiate dall’Europarlamento, chiedono un’azione decisa che però è avversata da altri Paesi.