«Il corpus di questi decreti non è innovativo, ci sono progetti che in Italia si stanno aspettando da dieci anni. La vera sfida dunque è quella dell’attuazione». Greta Nasi, direttore Area Public Management and Policy della Sda Bocconi, spiega a CorCom come vincerla questa sfida.
Ora non abbiamo più scuse. Ci sono le regole, ci sono i progetti. Che fare per evitare che resti tutto sulla carta?
Bisogna rendere più semplice possibile l’attuazione. Prendiamo il caso del domicilio digitale: ora bisogna decidere quale canale di comunicazione scegliere. Il governo sembra propendere, almeno in una prima fase, per la Pec. Qualche mese fa però è stato spento il servizio di Cec-Pac (la posta certificata di Poste e Telecom ndr). Allora io dico che per valutare se sia la Pec o altro lo strumento principe dello switch off digitale bisogna studiare quel “fallimento”.
In che senso?
Nel senso che bisogna tirare fuori i dati e studiarli. Capire i motivi che ne hanno decretato il fallimento, “salvare” gli aspetti che hanno funzionato ed evitare di ripetere di errori che ne hanno impedito la piena efficacia. Mi pare un punto di partenza fondamentale. Detto questo resto convinta che una maggiore semplificazione dell’execution si sarebbe avuta inserendo il domicilio digitale dentro il Spid.
Il Cdm ha licenziato in via definitiva anche il Freedom of Information Act. Crede che la PA italiana diventerà più trasparente ed defficiente?
Anche in questo caso dipende da come viene attuata. A mio avviso il ddl Madia è troppo incentrato sulle sanzioni: si multano quelle amministrazioni che non rispondo entro 30 giorni alle richieste di accesso ai dati che provengono dagli utenti. Invece le sanzioni non sono sufficenti ad innescare processi virtuosi di trasparenza e accountability in grado di creare valore per la PA.
Cosa serve?
Soprattutto decidere “quali” informazioni rendere accessibili. Recenti studi dimostrano che l’apertura totale dei dati pubblici ha un impatto risibile sulle performance finanziarie e di servizio dei Comuni, ad esempio. I cittadini – gli utenti più in generale – hanno ben chiaro in mente quali informazioni vogliono: si tratta tipicamente di info finanziarie e sulle prestazioni. Ecco, facendo un matching tra PA e cittadini, sarebbe più agevole sapere cosa interessa all’utenza. Solo in questo modo le amministrazioni trarranno benefici sul fronte finanziario e dell’organizzazione. La trasparenza fine a sé stessa è un concetto riduttivo che non serve ai processi di innovazione.
Il governo prevede anche la creazione, presso la Conferenza delle Regioni, di una Commissione per l’innovazione tecnologica. Lei che idea si è fatta?
Al di là dei singoli organismi quello che mi pare di vedere è che ci sia ancora una governance frammentata. Non vedo la volontà di creare una figura, anche collettiva, in grandi di raccogliere e rielaborare ggli inout provenienti dalla politica. Il tema da affrontare è questo.
Che modello ha in mente?
Gli Stati Uniti hanno riutilizzato un modello britannico quando hanno varato “Us Digital Service”. Si tratta di un progetto, ma anche di un modo di lavorare, che ha l’obiettivo di supportare gli enti governativi nella ricerca di soluzioni che garantiscano il dialogo tra sistemi informatici realizzati e cresciuti nel tempo, senza prevedere esigenze di condivisione delle risorse e dei dati. In quel caso l’input politico arriva direttamente dalla Casa Bianca.
Basta una guida unica definita per realizzare la riforma della PA?
Ovviamente no. Serve un grande investimento in capitale umano. Anche in questo caso Us Digital Service può essere uno spunto: l’iniziativa ha infatti aperto le porte a molti talenti provenienti da aziende private; lo stesso responsabile di progetto è un ex manager di Google.