A differenza del suo predecessore Steve Jobs, il Ceo di Apple Tim Cook non ha mai avuto paura di prendere una posizione precisa, sia in campo sociale che politico, dal coming out sulla sua vita personale, al supporto alle questioni ambientali fino all’annuncio che donerà la sua intera fortuna personale, un giorno, a enti benefici. Secondo molti osservatori la linea dura assunta in questi giorni nel negare alle autorità federali americane accesso ai dati crittati dell‘iPhone dell’attentatore di San Bernardino è coerente con questa linea e una delle difese della privacy contro le ingerenze del governo più tenaci mai fatte, tale addirittura da definire quale sarà il lascito di Cook per Apple e da segnare la strada che molte tech companies vorranno seguire.
Da tempo infatti i colossi della Silicon Valley si trovano in un testa a testa col governo Usa sul tema dell’accesso ai dati dei loro utenti – che sempre più spesso affidano alle tech companies, non solo quelle degli smartphone ma anche delle piattaforme web, social e cloud, fette consistenti della propria vita.
“Questa è un’azienda americana che combatte un ordine di un tribunale americano”, ha detto Chenxi Wang, chief strategy officer di Twistlock, sull’LA Times. “Apple ora viene vista come paladina della protezione dei dati dei cittadini: se avrà successo, molte altre aziende adotteranno il suo atteggiamento”.
Naturalmente non è detto che Cook la spunti sull’Fbi, perché non consegnare informazioni in un caso come questo può voler dire ostacolare indagini su un grave attacco terroristico su suolo americano. Ma Cook ne ha fatto una questione di “diritti umani” – anche se esiste un evidente interesse di business per Apple: la casa della Mela è nota per la sicurezza con cui protegge i dati dei clienti da occhi indiscreti, anche delle autorità, è per questo che i suoi prodotti vengono acquistati.
Washington conosce bene la posizione della Silicon Valley sui temi della privacy, tanto che lo scorso mese i massimi consulenti di sicurezza nazionale della Casa Bianca sono andati a incontrare i top manager di Apple, Facebook e Alphabet (ovvero Google) per chiedere più cooperazione con le forze di polizia. Ma l’industria tecnologica è ansiosa di costruirsi una rappresentanza e un potere di negoziazione in sede politica che siano all’altezza del suo peso economico e finanziario e non è disposta a cedere alle richieste del governo fornendo la cosiddetta backdoor ai dati personali degli utenti.
L’atteggiamento di Cook pesa perché per la prima volta un Ceo parla così chiaramente in difesa della vision delle tech companies. “Le altre aziende sono state molto meno decise finora nel sostenere questa posizione”, osserva Jan Dawson, chief analyst di Jackdaw ResearchHis. Ora Cook ha dato coraggio ai player della Silicon Valley spingendoli a parlare più apertamente: da Facebook a Google i commenti a sostegno del Ceo di Apple non sono tardati.
Anche il pubblico americano è con il numero uno della Mela: un sondaggio di Pew Research dello scorso anno ha scoperto che il 54% degli americani disapprova la raccolta dei dati da Internet e telefoni da parte del governo americano, anche se serve a combattere il terrorismo. Fuori dagli Usa è il 62% a opporsi al monitoraggio dei cittadini americani. Apple sa quello che i suoi clienti vogliono (tra l’altro il 60% del suo fatturato è prodotto fuori dagli Usa, per esempio in Cina) e non vuole deludere chi spende centinaia di dollari per un device e un servizio ultra-sicuri.
Deirdre Mulligan, professore associato di legge della UC Berkeley School of Information, ha definito la presa di posizione di Cook “forte, audace” perché dà la misura di quanto Apple è disposta a fare per proteggere la privacy dei suoi utenti. “E’ un momento importante nella storia della leadership aziendale”, ha detto la Mulligan. “Sarà sicuramente ricordato per questo”.