Purassanta: “Economia di rete e startup B2B, ecco come far crescere l’Italia”

L’Ad di Microsoft Italia a CorCom: “Servono grandi piattaforme di dati da mettere a disposizione delle aziende del digitale”. E sulle nuove imprese: “Quelle innovative devono sostenere la digital transformation delle Pmi”

Pubblicato il 06 Apr 2016

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“L’Italia ha bisogno di sviluppare un’economia di rete”. È la ricetta dell’Ad di Microsoft Italia, Carlo Purassanta, per far crescere in nostro Paese agganciando la rivoluzione digitale.

Purassanta che vuol dire fare economia di rete?

Vuol dire moltiplicare le piattaforme di dati a cui le imprese possono agganciare il loro business per aumentare il successo delle loro iniziative. Si tratta di governare la cosiddetta uberizzazione dell’economia dove la domanda trova immediatamente risposta a un’offerta che nasce dentro il business dei dati.

L’Italia è pronta?

Stanno accadendo cose interessanti, anche sul versante pubblico. Pensiamo a Garanzia Giovani: non è solo un progetto, è una grande piattaforma dove le big company del digitale si sono agganciate. È un buon esempio di economia di rete che andrebbe messo a sistema.

Anche Microsoft ha aderito. In che cosa consiste il progetto?

BizSpark per Garanzia Giovani è nato per aiutare i giovani a realizzare progetti imprenditoriali a lungo termine, mettendo a disposizione gratuitamente dotazioni tecnologiche, consulenza tecnica e manageriale alle nuove realtà, alle startup insomma.

A che tipo di startup si rivolge?

Le aziende che vogliano aderire devono essere imprese non quotate in attività da meno di 3 anni, impegnate nello sviluppo di un prodotto o servizio software ed avere un fatturato annuo inferiore a 1 milione di dollari.

C’è chi pensa che le startup non siano una leva di occupazione a lungo termine, basti pensare al loro elevato tasso di mortalità. Lei non la vede così…

No, credo che siano una leva di occupazione incredibile invece. Certamente se guardiamo agli Usa è spaventoso il tasso di fallimento di queste nuove imprese, ma è anche vero che lì l’economia viaggia velocemente: tante startup muoiono ma altrettante ne nascono. Ma l’Italia non è agli Usa che deve guardare.

E dove, invece?

Alla specificità del proprio tessuto produttivo, fatto di tante Pmi che negli anni hanno fondato la loro credibilità e il loro business nel made in Italy ma che, oggi, hanno difficoltà a competere sul mercati internazionali perché non in grado di investire adeguatamente in digitale. La trasformazione digitale delle Pmi è la chiave per espandere il potenziale di crescita dell’economia italiana. Conoscere e saper sfruttare le opportunità offerte del digitale, come ad esempio il cloud computing, il lavoro in mobilità, il digital marketing, l’e-commerce, significa per le aziende intraprendere nuove relazioni, migliorare le proprie competenze, acquisire maggiore flessibilità, internazionalizzarsi, rendere più efficienti i processi interni e la collaborazione con l’ecosistema circostante.

E allora?

Allora io penso che sia necessario sostenere lo sviluppo di startup B2B che sostengano a loro volta la digitalizzazione delle nostre piccole e medie imprese, facendo leva sul know how e sugli strumenti messi a disposizione dalle grandi multinazionali. Si verrebbe a creare un circolo virtuoso a livello sia di aumento di produttività che di occupazione.

In Italia si parla di 5mila startup attive. Non sono poche?

Guardi, io non credo che servano moltissime startup. Credo che ne servano poche, ma mirate alle necessità del tessuto imprenditoriale italiano. Diciamo che lo sforzo che si dovrebbe fare è triplicare le attuali 5mila, non di più.

Ma le Pmi italiane sono pronte a fidarsi del digitale? Pronte ad investire, insomma?

Anche qui ci sono movimenti interessanti. Soprattutto dove si incrociano l’impegno della PA, delle associazioni confindustriali locali e l’università. Ecco, lì io vedo un terreno già seminato che può fare da traino al Paese. E attenzione: la particolarità è che questi territori virtuosi non replicano necessariamente il gap tradizionale Nord-Sud. Ho visto vivacità imprenditoriale a Trieste così come in Calabria o in Sicilia.

Crede che l’Italia ce la farà?

Non bisogna mollare perché il nostro è un Paese che punta ancora troppo poco su questo tipo di investimenti. In Italia parliamo di cifre fra i 150 e i 200 milioni di euro all’anno di capitali investiti per la tecnologia. Nella sola metropoli di New York vengono investiti oltre 7 miliardi di dollari Un gap non più tollerabile, perché i tempi stanno cambiando alla velocità della luce: “E’ vero – continua Purassanta -, in Italia ci vogliono forza, determinazione, pazienza, solidità finanziaria e molto, moltissimo coraggio. Bisogna però tenere duro perché è l’unico modo che le imprese hanno per sopravvivere.

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