In principio, il cloud era una cosa per pochi. Anzi, per molto pochi molto ricchi.
Tanto che, come accade in tutti i settori industriali quando iniziano a maturare, la prima grande guerra del cloud è stata sui prezzi. Per seguire poi con la nuova fase di scontro sulle funzioni attualmente in corso.
Facciamo un passo indietro. Dopo l’avvio del mercato cloud grazie all’intuizione di Amazon (che voleva estrarre valore dai suoi server nei periodi di stanca tra un picco dell’attività del suo negozio online e l’altro), è stata Google la prima azienda che ha cominciato ad offrire servizi con capacità crescente a costi sempre più bassi o inesistenti.
Come scrive Chris Anderson, ex direttore dell’edizione Usa di Wired, nel suo libro “Gratis”: «Uno dei modelli di business più interessanti per l’offerta di servizi erogati tramite internet è quello “freemium”, in cui il servizio base viene dato gratuitamente a tutti gli iscritti mentre funzionalità avanzate vengono offerte a pagamento. Il 5% degli utenti che sottoscrive l’abbonamento ripaga i costi del restante 95%, consentendo oltretutto di fare utili all’azienda». È un modello che prende le mosse dallo shareware, il software che negli anni Novanta veniva distribuito gratuitamente e che poteva essere pagato a piacere degli utilizzatori (o per sbloccare funzionalità avanzate). È stato il motore del cloud pubblico, una delle armi più affilate di Google.
La prima guerra delle nuvole infatti è stata tutta quantitativa e si è concentrata soprattutto sulla capacità del cloud: quanti megabyte e poi quanti gigabyte si potevano dare a prezzi sempre più stracciati. Google, ma anche Microsoft, e poi Box e DropBox, i servizi di Evernote, quelli di Apple: tutti quanti si sono concentrati sull’offerta di un certo quantitativo di memoria di archiviazione nel cloud per cercare di indurre una percentuale significativa degli utenti a pagare per ottenere di più.
«Ricordo ancora – dice Harry McCracken del settimanale americano Time – il lancio di Gmail. Google annunciò il suo servizio di posta il primo di aprile del 2004: molti credettero che fosse uno scherzo, soprattutto perché offriva 1 Gigabyte di spazio gratuito, in un’epoca in cui la maggior parte dei servizi di posta di aziende come Yahoo, Excite, Lycos e Microsoft superava a malapena i 5 Mega. E oltretutto lo spazio di Gmail continuava a crescere ogni giorno».
Ad aiutare Google e poi tutte le aziende che hanno fornito “hard disk in the sky”, come Steve Jobs una volta chiamò in modo denigratorio i servizi di cloud in concorrenza con quelli (all’epoca piuttosto scalcinati) di Apple, è stato il rapido abbassamento di prezzo delle memorie di massa. Favorito anche dalle scelte di Google e Amazon di utilizzare batterie di dischi rigidi consumer facendo affidamento sull’estrema ridondanza consentita dalla natura stessa del cloud per compensare la scarsa qualità (e i prezzi molto più contenuti che per i dischi professionali).
Parlando di prezzi: se nel 1956 il costo di megabyte era di circa 10mila dollari, e nel 1966 era già sceso a 1004 dollari. Nel 1986 il costo era sceso sotto i 25 dollari a megabyte, per diventare 20 centesimi a megabyte nel 1996, 0,0002 centesimi nel 2006 per arrivare agli attuali 0,000028 centesimi di oggi. In sessant’anni una riduzione di più di 328 milioni di volte. Frutto non solo di una accelerazione della tecnologia superiore a quella, ad esempio, che domina il settore dei processori, ma anche di una forte concentrazione nel mercato, passato da 18 a solo tre grandi produttori di memorie di massa: Seagate (che ha comprato tra gli altri Maxtor e la divisione dischi rigidi di Samsung), Western Digital (che ha la divisione dischi rigidi di Hitachi e SanDisk) e Toshiba (che ha comprato l’unità di Fujitsu). Pochi grandi produttori, stimolati anche dalla crescita delle unità di memoria allo stato solido (SSD) hanno trasformato i dischi rigidi in semi-commodity, con margini estremamente risicati.
Tuttavia, il gioco è cambiato. Adesso la seconda guerra del cloud, peraltro appena iniziata, è basata sulle funzionalità. I grandi delle nuvole, per cercare di diversificare un’offerta altrimenti interscambiabile e condannata a diventare a costo zero (per essere sovvenzionata da servizi di pubblicità e dagli investimenti temporanei dei venture capitalist).
Funzionalità che Amazon Web Services (AWS), l’attuale leader di mercato per l’offerta di cloud, ha deciso di incrementare ad esempio con una serie di acquisizioni, a partire dall’italiana Nice. L’azienda di Asti ha due prodotti, l’EnginFrame e il Desktop Cloud Visualization, che Amazon vuole per dare funzionalità innovative ai clienti del suo cloud.
Secondo la società di ricerche di mercato Pacific Crest, «nel 2016 lo scontro tra giganti del cloud avverrà sulle funzionalità e non più sui prezzi, come è stato nel 2014».
Microsoft e Google seguono da vicino, con innovazioni sulla gestione e le funzionalità di base, mentre ad esempio Ibm spinge su due fronti: da un lato l’alleanza con VMware, divisione di Emc leader assoluto nel mercato della virtualizzazione, e dall’altro con Apple, della quale utilizza il nuovo linguaggio di programmazione open source, Swift, per cercare di mandare definitivamente in soffitta Java, oggi di proprietà di Oracle.