Nel 2011, il Ceo di Netflix fissava al 2030 la fine della tradizionale Tv broadcast. Nello stesso anno, un panel di esperti intervistati da Cisco arrivava alla stessa conclusione. La profezia si avvererà? Il tema viene analizzato in uno studio realizzato da Marko Ala-Fossi dell’Università di Tampere in Finlandia e da Stephen Lax dell’Università di Leeds in Uk. Lo studio fa parte di un progetto quadriennale intitolato “Broadcasting in the post-broadcast era: Policy, Technology, and Content Production”. Secondo i due studiosi, si parla molto di fine dell’era della Tv e di avvento di nuove tecnologie ma i dati a disposizione sono poco obiettivi perché servono gli interessi dell’industria mobile e non sono una base affidabile per definire delle policy. “Le dichiarazioni a effetto di certe aziende particolarmente influenti finiscono in parte con l’avverarsi”, si legge nello studio.
Che i policymaker si sarebbero allineati al punto di vista dell’industria mobile sarebbe dimostrato da numerosi esempi. Quando la Commissione europea ha avanzato la sua proposta sulla banda dei 700 MHz, i dati forniti dalla Gsma durante il processo di decision making dell’esecutivo Ue hanno ottenuto grande evidenza, con irritazione dei broadcaster, sottolinea oggi un commento di Policy Tracker. La Gsma sosteneva che nuovo spettro era necessario per soddisfare l’aumento della domanda dai consumatori, lo sviluppo del 5G e la Internet of Things con le auto connesse e le città smart, e queste istanze sono state abbracciate dai commissari Ue. Andrus Ansip, commissario al Digital single market, ha dichiarato su Policy Tracker che lo spostamento dei 700 MHz ai servizi mobile non creerà costi per i broadcaster tali da peggiorare la qualità della programmazione; anzi le emittenti potranno spostarsi verso un multiplex di migliore qualità. Secondo Ala-Fossi e Lax, le politiche europee sullo spettro hanno preso la direzione che più conviene all’industria mobile, le cui previsioni sul futuro della Tv non equivalgono però a “vere strategie politiche”.
Oggi i policymaker si basano troppo su “pure osservazioni astratte di tecnologie, comportamento dei consumatori e modelli di business” e questi non sono elementi sufficienti per prendere decisioni sul futuro della Tv, continuano i ricercatori. I due studiosi sottolineano il possibile effetto che un panorama “total Ip” avrebbe sull’obbligo di servizio universale delle emittenti pubbliche e il ruolo di gatekeeping delle aziende che hanno il compito di diffondere la loro programmazione, nel caso in cui il PBS (Public broadcasting service) perdesse troppo spettro. Ala-Fossi e Lax ritengono che questo aspetto sia stato trascurato. Per esempio, uno studio presentato di recente a un summit del Radio Spectrum Policy Group ha illustrato gli impatti economici e sociali dello spostamento dei 700 MHz ai servizi mobile non ha detto nulla dell’impatto culturale di un’industria del broadcasting pubblico che cambi faccia completamente e diventi inefficiente.
La tesi centrale di Ala-Fossi e Lax è che il modello verticalmente integrato del Public broadcasting service europeo, in cui lo spettro è strumentale al servizio broadcast, è essenziale perché tale settore continui a esistere nella sua forma attuale. Le previsioni sull’imminente “fine” della Tv tradizionale sarebbero il desiderio nemmeno troppo segreto di player di altri settori destinato ad avverarsi in assenza di adeguati interventi di chi prende le decisioni a livello politico e di piani chiari e funzionali su quale dovrà essere il volto del PBS nel futuro. Nella confusione, il servizio pubblico ne uscirà menomato se non interamente distrutto.