«Più partecipazione, più comunicazione, più volontà di mettere in gioco le proprie idee con quelle dei cittadini”.
Secondo Ivana Pais, professore associato di sociologia economica alla Cattolica di Milano, è questa la ricetta per far crescere la sharing economy nella pubblica amministrazione.
C’è chi pensa che sharing economy, nel senso di economia collaborativa e condivisa, sia una sorta di ossimoro se applicata all’amministrazione che, per sua natura, è gerarchica e burocratica. Lei che idea si è fatta?
Bisogna fare chiarezza. L’approccio “sharing” alla PA può essere di due tipi: capire come introdurre logiche di condivisione nelle procedure pubbliche e, sull’altro fronte, in che modo la pubblica amministrazione può incrementare la sharing economy nelle politiche che coinvolgono i cittadini. Ad oggi, in Italia, si sta sviluppando soprattutto questo secondo filone su settori specifici.
Quali i settori più coinvolti?
La mobilità sta facendo da apripista: car sharing e car pooling sono i progetti più diffusi a livello di amministrazioni locali. Ma anche in questo caso vanno fatte delle distinzioni.
In che senso?
Il car sharing non può essere considerato servizio di sharing economy in senso stretto perché, se è vero che ottimizza le risorse, non cambia la modalità di fruizione della mobilità. Al contrario il car pooling cambia questo approccio perché, oltre all’ottimizzazione delle risorse, c’è anche una dinamica di relazione nuova che è uno degli elementi caratterizzanti. In questo senso la sharing economy sta ponendo interessanti questioni: dal rapporto tra distruzione di valore nei settori tradizionali e creazione di nuovo valore alla necessità di ripensare il sistema regolatorio, fino alla definizione di una nuova cittadinanza attiva e “produttiva”.
Ma se la mobilità “condivisa” ancora non è giunta a maturazione, ci sono esperienze già mature invece?
Alcune esperienze di crowdfunding sono interessanti. Penso, ad esempio, al Comune di Milano che ha lanciato dei bandi su tematiche di interesse pubblico. L’amministrazione ha raccolto progetti di associazioni, poi pubblicati su una piattaforma di crowdfunding. Le iniziative che raggiungevano il 50% di finanziamento tramite canali propri – va detto che erano progetti di associazioni – venivano poi finanziate per la restante percentuale dal Comune. Ecco, in questo caso, la pubblica amministrazione ottimizza le risorse e crea anche nuove modalità relazionali con i cittadini.
E sono anche forme di spending review dato che, come nel caso del Comune di Milano, le iniziative erano sostenute anche con risorse diverse da quelle pubbliche?
Non esattamente. E spiego perché: per intervenire sulle buche delle strade, ad esempio, servono modelli di finanziamento tradizionali. Il crowdfunding è efficace laddove la PA ravvisa un interesse pubblico in progetti pensati dalla cittadinanza attiva. E il senso della sharing economy sta qui: integrare forme già collaudate di servizi pubblici a servizi nati dalla condivisione.
A proposito di condivisione, c’è chi pensa che la gestione associata nei Comuni debba essere considerata una forma di sharing economy…
Non basta la collaborazione per dire che si sta facendo sharing economy. Ripeto: se il progetto non va a cambiare la dinamica relazione e la modalità di fruizione del servizio, non si può parlare di sharing economy. Almeno non in senso stretto.
Il progetto di legge sulla sharing economy, al vaglio del Parlamento, può rappresentare un volano anche per la PA?
Non credo che quel provvedimento possa impattare sulla PA, ma certo va monitorato l’iter parlamentare. Forse è presto per dirlo.
Lei crede che si debbano comunque disegnare delle cornici normative?
Credo che sia necessaria una regolazione che non ingabbi l’innovazione, che sia in grado di intervenire in maniera “morbida” a sostegno dello sviluppo delle piattaforme italiane che soffrono di un problema dimensionale.
In Italia, patria delle piccole e medie imprese, si dice ancora che “piccolo è bello”, però.
Non in questo caso: bisogna dare alle nostre piattaforme di sharing economy la possibilità di competere con in grandi big internazionali. La sfida regolatoria, a mio avviso, è questa.
C’è anche una sfida culturale da vincere, però.
Il tema della diffusione della cultura è un tema centrale in tutti i processi di trasformazione. Nella pubblica amministrazione è particolarmente importante perché i dipendenti pubblici devono poter avere gli strumenti per abbracciare e trasformare in servizi le spinte innovative che vengono da basso.