LE INCHIESTE DI CORCOM

Smart working, Massagli: “Ora il Parlamento faccia presto”

Il presidente dell’associazione Adapt: “Approvare in tempi brevi il ddl per partire con i contratti collettivi. Altrimenti la norma nascerà già vecchia”

Pubblicato il 08 Ago 2016

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“Il disegno di legge sul lavoro agile andrà in discussione in aula a palazzo Madama alla ripresa dei lavori parlamentari. Credo che la priorità sia a questo punto tutta pratica: è fondamentale che le norme sullo smart working diventino legge al più presto, anche a costo di vedere la luce con alcuni aspetti ancora migliorabili e con qualche lacuna. Mi auguro che si proceda con velocità, perché più si allungano i tempi e più la norma rischia di nascere già vecchia”. A porre in un’intervista a CorCom l’accento sulla questione dei tempi dei lavori parlamentari è il giuslavorista Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione Adapt, scuola di alta formazione sul diritto del lavoro e le relazioni industriali fondata da Marco Biagi. “Una volta che il lavoro agile sarà stato ufficialmente introdotto nel nostro ordinamento – sottolinea – questo permetterà di dare vita a contratti collettivi o sperimentazioni reali. Oggi i contratti lavorativi reali non contemplano il lavoro agile, che pure è già ampiamente praticato. Questo dal punto di vista prettamente giuridico pone una miriade di problemi, si tratta di situazioni che oggi sono sotto la spada di Damocle di giudici e ispezioni, a partire dai temi della salute e sicurezza del lavoratore”.

Massagli, quali sono le principali novità introdotte dal disegno di legge sul lavoro agile e qual è la loro portata per il contesto pubblico e privato in Italia?

La principale novità è l’introduzione di questa modalità di lavoro nel nostro ordinamento. Il punto centrale è nel tentativo di regolare il lavoro agile, che esiste già nella pratica, sia non formalizzata, sia in parte formalizzata, cioè negli accordi. Gli accordi collettivi che contemplano lo smart working iniziano già ora a essere diffusi, in particolare nel mondo assicurativo e bancario, nei grandi gruppi ma anche in quelli di dimensioni più ridotte. Il lavoro a distanza era possibile finora in Italia in una modalità molto complessa, quella del telelavoro: rispetto al telelavoro il lavoro agile ha meno vincoli, regolati da un accordo collettivo o individuale tra le parti. Con questo disegno di legge il nostro ordinamento prende così atto di un mondo già cambiato soprattutto grazie alle nuove tecnologie, che consentono al lavoratore di svolgere le proprie prestazioni anche a distanza. Così, dopo il ritardo accumulato rispetto ad altri ordinamenti europei, anche in Italia sarà previsto il lavoro a distanza. Ma attenzione, non in modalità “esclusiva”: non si tratterà di contratti esclusivamente di smart working, ma di offrire ai lavoratori la possibilità di svolgere una parte delle proprie mansioni in una sede diversa da quella dell’azienda.

Ci sono punti critici o su cui si dovrà lavorare più a fondo?

A mio avviso è singolare che il testo inquadri lo smart working esclusivamente sotto l’ombrello del lavoro subordinato. Se questo da una parte è logico, perché il lavoratore autonomo non deve dire dove svolge la sua prestazione, dall’altra il lavoro agile è la “traduzione” del vecchio lavoro a progetto nel contesto tecnologico. Il lavoratore agile è una figura di mezzo tra l’autonomo e il subordinato. Ha una serie di diritti e garanzie, ma non lavora sotto il continuo controllo del datore di lavoro: lavora per risultati. Il Governo da una parte punta molto sul lavoro stabile, e dall’altra con il lavoro agile inserisce una nuova forma contrattuale che “aggiorna” il lavoro a progetto. In secondo luogo, a mio avviso, si doveva puntare di più sul ruolo abilitante delle nuove tecnologie: nella nuova norma si dice che il lavoratore agile “può anche” utilizzare gli strumenti tecnologici. Ma la vera particolarità è che proprio la tecnologia gli permette il lavoro a distanza. Altrimenti si rischia di far passare i commerciali per smart worker, quando proprio per la tipologia delle loro mansioni non sono mai stati legati a una postazione fissa. La vera novità, l’impatto forte sul mercato, verrà dal fatto che a lavoratori che prima erano “rinchiusi” negli uffici si consentirà di lavorare dove vogliono, grazie alle nuove tecnologie.

Si parla di formazione continua e certificazione delle competenze. Davvero sono aspetti destinati a sostituire nella tutela dei lavoratori il valore dell’articolo 18?

L’articolo 15 del testo dice che al lavoratore può essere riconosciuto il diritto all’apprendimento permanete e la certificazione delle competenze. Oggi grazie alle tecnologie stanno mutando le modalità di lavoro dei lavori tradizionali, e c’è tutta una generazione di lavoratori che rischia di rimanere tagliata fuori, legata a lavori che scompaiono. Se il lavoratore, come nel caso dell’articolo 18, è legato per legge al posto di lavoro, il rischio più grande che può correre è che quel lavoro scompaia, spazzato via dalle nuove tecnologie. Per questo l’apprendimento permanente e la certificazione delle competenze possono aiutare i lavoratori a rimanere agganciati al cambiamento. Anche per questo sono convinto che prima o poi, al di là delle difficoltà finanziarie, l’apprendimento continuo dovrà diventare un sistema nazionale in cui lo Stato garantisce e finanzia, almeno per i lavoratori più esposti, corsi gratuiti di aggiornamento continuo e aggiornamento delle competenze.

Che risposta viene dai sindacati?

La convegnistica sindacale dimostra che di smart working si inizia a parlare. I sindacati sottolineano sempre, a volte anche esagerando, la questione del diritto alla disconnessione. Ma stanno anche iniziando ad affrontare una riflessione vera su come sta cambiando il loro ruolo. Se le persone lavorano tutte in luoghi diversi il rapporto di lavoro tende a individualizzarsi, e c’è meno possibilità di “fare gruppo” in azienda. Questo per il sindacato vuol dire cambiare molto nel contatto con le persone, e mette in difficoltà il modello “tradizionale” di organizzazione dei lavoratori. Sarà necessario cambiare molto, ma i sindacati hanno già iniziato a farlo, ad esempio puntando sulla propria presenza sui social, che al momento mi sembra di poter dire sia più forte e strutturata rispetto a quella di molte associazioni datoriali.

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