“Nessun approccio sarà mai vincente se si affronta la trasformazione digitale solo parzialmente. Oggi è quanto mai necessario un approccio più trasversale, guidato da un’unica regia e con un disegno che deve avere nel proprio perimetro l’intera organizzazione aziendale”. Ne è convinta Virginia Ghisani, Executive Search Partner di Key2People, head hunter made in Italy. In un’intervista a tutto campo rilasciata a CorCom affronta le questioni più delicate dei processi di digital transformation: dall’approccio dei manager fino alle competenze dei dipendenti, da favorire sia tramite l’ingresso di nuove leve in azienda sia con il re-skill di professionisti, passando per l’importanza della progettualità e di visioni a 360° in grado di cogliere gli aspetti fondamentali della rivoluzione digitale.
“Il digitale ha consentito l’affacciarsi di organizzazioni sempre più piccole e snelle, che sono state in grado di generare valore a un ritmo mai visto prima”, spiega Ghisani che però sottolinea: “Non sono tanto le dimensioni che caratterizzano queste aziende, spesso nate dal nulla, bensì un approccio nuovo e alcuni fondanti elementi organizzativi”.
Dal punto di vista delle competenze digitali, cosa favorisce maggiormente un’apertura alle nuove frontiere di business 2.0: l’ingresso di nuove leve in azienda o il re-skill di professionisti con esperienza alle spalle?
Anche in questo caso va fatta una premessa: è chiaro che la trasformazione digitale sta cambiando profondamente il mondo del lavoro e delle professioni, è chiaro che il tema delle competenze sta alla base di qualsiasi progetto o iniziativa di trasformazione digitale.
Noi crediamo, rispetto al nostro osservatorio e alle esperienze delle aziende clienti che abbiamo accompagnato in questi anni nel loro processo di trasformazione digitale, che entrambe le strade vadano necessariamente percorse in parallelo. La strada dell’inserimento di nuove figure dall’esterno è fondamentale. I nuovi ruoli che il digitale impone richiedono competenze del tutto nuove, spesso impossibili da ricostruire internamente. Servono persone che portino immediatamente contributo e valore per accelerare la trasformazione, portatori di competenze tecniche e specialistiche (perché le tecnologie digitali richiedono competenze tecniche e specialistiche) nei diversi ambiti che il digitale attraversa ma anche portatori di una nuova cultura, di un nuovo approccio, che abbiano vissuto contesti e modelli organizzativi ‘digital mindset driven’.
È altresì fondamentale la formazione del personale con esperienza interno all’azienda, per valorizzarne le competenze e catalizzarne le potenzialità in ottica digitale. E ancora una volta è necessaria non solo la formazione tecnica nei diversi ambiti che il digitale attraversa, ma soprattutto una formazione volta al cambiamento di mindset. In un orizzonte temporale di 4/5 anni, acquisiranno sempre maggiore importanza le competenze trasversali. Serve quindi una formazione che stimoli l’attitudine al problem solving, il pensiero critico, il pensiero agile, l’interdisciplinarietà, il multitasking concettuale, la propensione al rischio, la creatività.
Entrambe le strade vanno percorse attraverso una attenta pianificazione degli interventi e secondo un piano coerente con la strategia di trasformazione digitale definita, punto di partenza indispensabile e necessario. Molte aziende per esempio hanno utilizzato lo strumento dell’assessment delle competenze digitali interne, prima di avviare la strada delle assunzioni e della formazione. Iniziare dall’analisi delle competenze interne, partendo anche dal presupposto, non scontato, che spesso le competenze digitali sono esercitate e acquisite dalle persone nella propria vita personale quotidiana, più che nel contesto professionale, è un buon punto di partenza.
Quali sono gli ostacoli di questi due processi?
È evidente che in Italia c’è un forte skill gap tra le competenze digitali che le aziende iniziano a richiedere e le competenze effettivamente reperibili sul mercato. Noi, già oggi, come società di head hunting, facciamo molta fatica nel reperire competenze digitali specialistiche e con il digital mindset che serve. E se pensiamo che il tasso di digitalizzazione in Italia è ancora bassissimo e che molti settori dovranno rapidamente recuperare il ritardo nell’introduzione delle tecnologie digitali, questo sarà ancora più vero nell’immediato futuro. Serve quindi saper leggere le storie professionali dei singoli individui, andare al di là del curriculum, reperire competenze da ambiti meno scontati, come ad esempio quello delle startup, fenomeno in forte crescita in Italia, serve soprattutto generare contaminazione fra i diversi ambiti, fra i diversi protagonisti della trasformazione digitale, nessuno escluso: le imprese, le società di servizi e prodotti di tecnologia, le università, le startup.
Esiste oggi un problema di approccio alla trasformazione digitale, legato ad un’applicazione spesso troppo disomogenea fra le varie unità aziendali?
La trasformazione digitale attraversa necessariamente tutti gli ambiti aziendali: il marketing, le tecnologie, ma anche l’ingegneria, le operations, gli acquisti, le risorse umane, gli aspetti finanziari, il legale, nessuna unità aziendale è esclusa. Molte aziende non hanno ancora capito la portata della trasformazione digitale e la forte trasversalità che la caratterizza. Nessun approccio sarà mai vincente se si affronta la trasformazione digitale solo parzialmente, senza un disegno che ripensa tutti i processi e tutti gli ambiti aziendali. Certo non tutte le iniziative debbono avere la medesima priorità e il cambiamento può essere affrontato gradualmente, dipende moltissimo dal settore e da cosa è realmente strategico e prioritario, a seconda per esempio che si tratti di un’azienda di prodotto o di un’azienda di servizio. Abbiamo assistito in questi anni a trasformazioni parziali e ad iniziative sporadiche e frammentate, guidate da singole funzioni aziendali, talvolta dalla funzione marketing, talvolta dalla funzione information technology, fra le funzioni più esposte alla trasformazione digitale. Oggi è quanto mai necessario un approccio più trasversale, guidato da un’unica regia e con un disegno che deve avere nel proprio perimetro l’intera organizzazione aziendale.
Cosa spaventa di più i vertici aziendali?
Questi aspetti rendono tutto più complesso. La consapevolezza che si sta sempre più concretizzando di dover fare investimenti a 360 gradi in ogni funzione aziendale, l’incertezza su quali investimenti siano prioritari, perché siano da subito realmente efficaci.
Un altro aspetto rilevante che spaventa i vertici aziendali è che la trasformazione digitale abbatte le barriere fra i settori commerciali, pertanto le aziende non possono più confrontarsi con i competitor tradizionali. Sempre più in futuro i competitor più pericolosi nasceranno dal niente, le tecnologie digitali hanno reso infatti possibile l’affermarsi di aziende che hanno letteralmente polverizzato i tempi di crescita e che raggiungono in pochissimo tempo quote di mercato sproporzionalmente superiori rispetto ai loro competitor, in passato ci volevano 100 anni per creare business da 1 miliardo di dollari, Groupon lo ha fatto in 18 mesi. In futuro poi i competitor potranno arrivare da settori fino ad allora lontani: Porter non avrebbe mi considerato Amazon fra i competitor nella GDO del food. Fra 5 anni il mercato sarà completamente diverso da oggi.
Quali sono i settori che, dal punto di vista professionale, sono stati maggiormente sconvolti dall’avvento del digitale?
Premesso che è ormai evidente che la trasformazione digitale rappresenta un’opportunità per tutti i settori di mercato e che oggi, di fatto, in tutti i settori, in modo specifico e più o meno sistemico, si coglie il cambiamento rispetto a qualche anno fa, vi sono alcuni settori che sono stati maggiormente impattati e dove la trasformazione digitale ha avuto un ruolo maggiormente dirompente, forzando l’accelerazione nel ripensamento dei processi di interazione con il cliente, nella definizione di nuovi servizi e nell’adozione di nuove tecnologie. Il settore dei media, per esempio, ormai da alcuni anni ha ridisegnato completamente strategie, modelli e infrastrutture, accompagnando la trasformazione che ha spostato il focus dalla distribuzione del contenuto, al consumatore.
Va fatta però una distinzione fra trasformazione digitale intesa come adozione di tecnologie digitali e trasformazione digitale intesa come cambiamento di “strategia-competenze-cultura -organizzazione”.
Se pensiamo al primo indicatore ormai in tutti i settori sono presenti le tecnologie mobile e cloud, in quasi tutti i settori, anche se non ancora con la capacità di sfruttarne appieno le potenzialità, sono stati avviati progetti di utilizzo dei big data e dei social, in alcuni settori si stanno adottando le tecnologie IoT. Fra i settori più avanzati il settore delle telecomunicazioni e dei media e il settore dei servizi e dei trasporti, a seguire il settore bancario e assicurativo, il settore retail, il settore energy e utility, infine l’industria, attraverso investimenti importanti nell’Internet of Things. Un po’ più arretrate in termini di investimenti in nuove tecnologie digitali, la pubblica amministrazione e la sanità.
Se pensiamo invece al secondo indicatore, ovvero al cambiamento di ‘strategia- competenze- cultura-organizzazione’, che è il corretto approccio, dal nostro punto di vista, per agire in profondità e cogliere appieno le opportunità che le nuove tecnologie mettono a disposizione, va fatta una diversa distinzione: solo i grandi gruppi italiani si sono mossi in questa direzione, partendo da una chiara strategia digitale, dalla conseguente definizione di un nuovo modello di organizzazione, fino ad arrivare all’inserimento di nuove competenze dal mercato e ad avviare iniziative per trasformare nel profondo la cultura aziendale. Hanno fatto invece più fatica (salvo qualche eccellenza) le medie-piccole imprese, un po’ per la scarsa capacità di fare investimenti, un po’ per un problema di cultura (secondo la fonte Istat a dicembre 2015, l’indice di digitalizzazione delle imprese da 100 a 250 dipendenti è del 26%, mentre l’indice di digitalizzazione delle imprese con più di 250 dipendenti è del 41%, ancora molto basso rispetto alla media Europea).
Quindi cosa ci attende nei prossimi anni?
Sicuramente il recupero dei settori più arretrati, in particolare l’industria. Sono sicuramente di buon auspicio il piano “Crescita Digitale” e la “Strategia per la Banda Ultra larga” promossi dal Governo e volti a far recuperare il gap esistente del nostro Paese rispetto ai maggiori Paesi europei. Sono sicuramente di buon auspicio le sollecitazioni che stiamo ricevendo da questa fetta di mercato, rispetto per esempio alla richiesta di effettuare attività di benchmarking con competitor a livello internazionale o alla richiesta di rivedere organizzazione e ruoli in chiave digitale.
Che ruolo ha il concetto di open innovation all’interno di questo contesto di rivoluzione digitale?
Ecco, appunto, ‘contaminazione’. Le imprese non sono sole ad affrontare la sfida della digital transformation, ma sono inserite in un sistema che è sensibile e si sta muovendo sulla base dei medesimi stimoli che il digitale impone. Fare open innovation significa identificare e integrare all’interno della propria organizzazione concept di innovazione e soluzioni non convenzionali a problematiche di business, attraverso la valorizzazione di contributi esterni: startup, incubatori, fornitori di soluzioni ICT innovative, università, pubblica amministrazione.
Anche in Italia tutti gli attori sopra elencati, le grandi, insieme alle piccole imprese, sebbene ancora in modo non sufficientemente diffuso, attivo e sistematico, stanno iniziando a sentirsi parte di un eco-sistema, che si sta sempre più aggregando e che inizia a generare valore.
In un Paese come il nostro, dove il tessuto produttivo è costituito in gran parte da Pmi, è più facile o più difficile fare open innovation?
È chiaro che l’economia in generale è nel mezzo di una profonda metamorfosi che il veloce procedere degli eventi rende difficile osservare, comprendere e prevedere. Ciò che è sicuro è che il sistema economico, i modelli di consumo, di produzione, l’occupazione, rappresentano le principali sfide che devono essere affrontate e che richiedono necessariamente un atteggiamento diverso e molto più proattivo da parte di aziende, governi e singoli individui. Ed è proprio su tale cambiamento di atteggiamento, soprattutto da parte delle Pm che costituiscono la maggioranza delle impese del nostro Paese, che si gioca la partita del nostro futuro.
La democratizzazione della tecnologia consente davvero anche ai piccoli di conquistare il mercato? O l’economia digitale è destinata a rimanere appannaggio dei big?
Le aziende più grandi che si confrontano da sempre con modelli internazionali e che hanno maggiori capacità di investimento, sono più avvantaggiate nel processo di digital transformation. Ma anche la Pmi sta muovendo i suoi passi, negli ultimi mesi le cose sono cambiate, almeno nella sensibilità all’argomento, nell’apertura al confronto, in ancora troppo poche, ma talvolta significative azioni. Ci aspettiamo poi sicuramente un’accelerazione grazie al piano di investimenti in finanziaria preannunciato dal ministro Calenda, in approvazione proprio in questi giorni, che prevede, fra le altre, importanti misure per favorire l’innovazione della PMI italiana.
Un’altra considerazione in chiave positiva, nasce proprio dalla natura del digitale: le tecnologie digitali e lo specifico know how ad esso collegato forniscono l’opportunità, come mai prima d’ora, per le aziende che le sanno sfruttare, di un vantaggio competitivo enorme a prescindere dalle dimensioni. Il digitale ha consentito l’affacciarsi di organizzazioni sempre più piccole e snelle, che sono state in grado di generare valore a un ritmo mai visto prima. Non sono tanto le dimensioni che caratterizzano queste aziende, spesso nate dal nulla, bensì un approccio nuovo e alcuni fondanti elementi organizzativi: costruire, interagire e coltivare community, sfruttare gli algoritmi, utilizzare le nuove leve di engagement che il digitale mette a disposizione, utilizzare i dati, le metriche calcolate in tempo reale per prendere decisioni, sperimentare, innovare continuamente, avere una forte propensione al rischio, adottare un modello di organizzazione piatto, non gerarchico, costituire team multidisciplinari e spesso autogestiti, in un contesto con un’autorità fortemente decentrata, muoversi e confrontarsi in un sistema aperto a contributi non convenzionali, assumere talenti, con forte imprenditorialità e propensione all’innovazione. A questo modello le nostre aziende, grandi e piccole, si dovranno ispirare.
Digital transformation nelle imprese e nella PA: quali differenze dal punto di vista del ripensamento dei processi e dell’impatto sull’operatività? Quale la svolta?
Le differenze di approccio, ma anche di risultati sinora raggiunti, nelle digital transformation tra imprese e PA sono molte, perché profondamente diversi sono i processi, i meccanismi di interazione con il cliente/cittadino, i modelli organizzativi e decisionali, le leve decisionali.
Nell’ambito della PA il pilastro fondamentale della digital transformation è il collaborative working, inteso come un processo di lavoro che consenta ai diversi interlocutori coinvolti, di condividere modelli organizzativi, soluzioni tecnologiche e progetti, orientati all’innovazione e alla digitalizzazione, costruendo una vera e propria rete che miri a favorire il riuso e faccia leva sull’interoperabilità, per uno sviluppo sistemico della Pubblica Amministrazione.
Il collaborative working è stato scelto come modello a livello strategico, nel piano di implementazione dell’Agenda Digitale Italiana. È stato definito infatti un programma di indirizzo centrale e sono state definite le linee guida per il coordinamento fra le diverse iniziative centrali e locali, e delle piattaforme di condivisione, con lo scopo di realizzare un eco-sistema fra i vari attori coinvolti, sia pubblici che privati.
Rispetto all’esperienza di Key2people, questo modello ancora non funziona. In occasione di alcuni progetti di ricerca di Manager in ambito ICT per la Pubblica Amministrazione, abbiamo interfacciato diversi Dipartimenti di Informatica e di Innovazione distribuiti su tutto il territorio nazionale. E’ stato sorprendente rilevare quante iniziative di innovazione siano state implementate. Queste iniziative sono state però realizzate in modo frammentato, poco sinergico, senza implementare logiche di interoperabilità e di riuso e soprattutto senza logica di continuità. Spesso infatti è tendenza della Pubblica Amministrazione realizzare un progetto di digital tranasformation con la stessa logica dell’opera pubblica: si progetta l’opera sulla base delle risorse economiche a disposizione, si costruisce l’opera e si consegna al cittadino. Un progetto di digital transformation non può essere affrontato con lo stesso approccio, richiede intanto un’attenta analisi di fattori diversi e l’integrazione di competenze diverse, può e deve integrare i diversi contributi del territorio, pubblici e privati, ha spesso un impatto culturale e sociale, richiede come tale formazione e il giusto livello di comunicazione, richiede continuità, cioè un’evoluzione continua dei contenuti e delle modalità di interazione ‘servizio/utente’.
Una delle motivazioni dell’attuale situazione di insoddisfazione rispetto alla reale efficacia e incisività dei progetti di digital transformation realizzati e della non completa realizzazione del modello collaborativo, è da ricercarsi a nostro avviso nella carenza di competenze digitali nell’ambito della Pubblica Amministrazione, ancora di più che nelle aziende private.
Le competenze digitali sono essenziali per il processo di modernizzazione del nostro Paese. La Pubblica Amministrazione Italiana ha bisogno, mai prima d’ora quanto più rapidamente, di manager che sappiano indicare la strada del cambiamento e che siano in grado di capire quali sono le priorità da affrontare, capaci di disegnare soluzioni organizzative e servizi digitali innovativi. Per implementare l’innovazione è essenziale poi sviluppare tali competenze in modo più estensivo a tutto il personale in ruoli chiave nelle organizzazioni della Pubblica Amministrazione.
E ancora una volta per competenze digitali intendiamo non solo le competenze definite specialistiche, ma anche e soprattutto il ‘digital mindset’ ovvero quelle competenze soft che il digitale impone, di cui già abbiamo parlato.
È peraltro ormai diffusa la consapevolezza che per gestire questa fase di cambiamento, in particolare nella Pubblica Amministrazione, anche nella logica di meglio implementare le riforme della Pubblica Amministrazione, è necessario partire dalle risorse umane. Se ne è parlato molto anche di recente al Forum PA, ne è testimonianza anche la costituzione della nuova European Skills Agenda, approvata dalla Commissione Europea, che elenca le dieci iniziative per dotare l’Europa di migliori competenze, con un focus specifico sulle digital skill.