Tredici miliardi di euro, la somma che secondo la Commissione Europea l’Irlanda dovrà recuperare da Apple per tasse non pagate fra 2003 e 2014, possono apparire una cifra enorme. Chiedere a Matteo Renzi impegnato a far quadrare i conti della prossima legge di Stabilità. Ma non è detto che siano cifre tali da spaventare il ceo di Apple, Tim Cook.
Il gruppo della mela gode di una liquidità di circa 205 miliardi fra cash, bond ed azioni immediatamente liquidabili, quasi tutta al riparo in paradisi fiscali offshore. Inoltre, non si è mai visto un creditore più riluttante dell’Irlanda a volere indietro i propri soldi. Basti guardare alla freddezza, se non all’ostilità, con cui il governo irlandese ha reagito alla decisione della commissaria Ue Margrethe Vestager. Non a caso, il tema vero aperto dalla decisione di Vestager non è comunque l’entità della supermulta ad Apple, né la volontà o meno del governo irlandese di recuperare quanto dovuto. I governanti irlandesi temono che gli apporti straordinari al bilancio pubblico che arrivassero dalla supermulta, si risolvano nel medio termine in svantaggi occupazionali per i disinvestimenti di Apple nel Paese, visto che la mela fiscale irlandese si è fatta meno appetitosa.
La decisione annunciata oggi a Bruxelles da Vestager nel corso di una conferenza stampa va la di là del singolo caso Apple e ricorda a suo modo un’altra decisione dell’Ue. Quella del 2004 quando l’allora commissario europeo Mario Monti multò Microsoft (497,2 milioni di euro) e la costrinse a commercializzare una versione di Windows senza il lettore multimediale Media Player. Una decisione che riguardò una singola società considerata monopolista nel suo settore ma che ebbe come risvolto l’apertura di non facile contenzioso più ampio tra Europa e Stati Uniti.
È proprio sul fronte euro-statunitense che non a caso si rischiano di avere anche stavolta le ripercussioni maggiori. Non a caso il dipartimento al Tesoro Usa ha già ventilato la minaccia che certe scelte dell’Ue comportino il ridimensionamento degli investimenti americani in Europa.
Al tempo di Monti i rapporti fra i due continenti erano tutto sommato positivi e la “ferita Microsoft” venne rimarginata in fretta anche se costituì un precedente spesso ricordato. Stavolta è diverso.
Mai come oggi i rapporti fra Europa e Stati Uniti sono stati così tesi. È sempre di oggi la notizia che la Francia chiederà di fermare i negoziati Ttip la cui conclusione avrebbe dovuto definire un quadro più aperto e libero delle relazioni commerciali fra Ue e Usa. La decisione di Parigi non è certo stata accolta con favore a Washington dove si guarda al Ttip come ad un’occasione per favorire l’espansione internazionale delle aziende americane.
Il contezioso euro-americano è in aumento e con tutta probabilità è destinato a farsi più aspro dopo il prossimo cambio di amministrazione negli Stati Uniti.
La globalizzazione e la crescente presenza dei gruppi americani nel vecchio continente ha messo in risalto non soltanto la potenza di fuoco delle tecnologie innovative delle web company Usa, ma anche le enormi differenze, filosofiche oltre che normative e culturali, fra le due sponde dell’Atlantico.
Il terreno di gioco in cui sono abituati a muoversi gli over the top statunitensi è completamente diverso del nostro: privacy, neutralità della rete, trattamento dei dati e loro uso ci vedono schierati su posizioni assai lontane. Facili da un lato le accuse di invasioni sregolate, altrettanto facili le accuse contrapposte di protezionismo mascherato. Il caso Apple è destinato a diventare un pezzo del più grande caso Europa-Usa.
Ma c’è anche un “caso Europa” che rischia di esplodere dopo la decisione di Vestager. Ed è quello dei differenti regimi fiscali applicati nei singoli Paesi. Qui l’Europa non ha competenza. Ed infatti Vestager non ha messo bocca. I soldi che Apple deve rimborsare non derivano da evasione fiscale ma da aiuti di Stato illegali. Distribuiti non attraverso contributi pubblici più o meno diretti, lente spessissimo utilizzata in passato quando si è trattato di analizzare le scelte industriali dei vari Paesi, bensì attraverso un regime fiscale immotivatamente vantaggioso, come l’Apple rule appunto. Più che “colpevole”, Apple è complice in quanto ha approfittato del particolare regime fiscale accordatole dal governo irlandese per fare confluire qui tutti i profitti ottenuti dalle vendite nel resto d’Europa.
Ma l’Irlanda non è l’unica nell’Ue ad avere un fisco di manica più o meno larga con le aziende che vi si stabiliscono. Si pensi, ad esempio, al Lussemburgo o all’Olanda. Dove è il limite tra aiuto di Stato e regime fiscalmente vantaggioso ma legittimo? Se ne discuterà molto nei prossimi mesi.
L’altro tema fodnamentale aperto dalla “sentenza Vestager” è dove vanno tassati i profitti. Dove c’è una sede legale più o meno operativa come è stato il caso frequente sinora? O dove le multinazionali realizzano i loro fatturati reali? Il tema riguarda tutte le aziende, ma coinvolge più immediatamente le web company la cui liquidità commerciale attraverso Internet le rende multiterritoriali se non extraterritoriali.
Il fatto che l’Irlanda abbia fatto da triangolatore di fatturati realizzati altrove non è né una novità, né una prerogativa di Apple. Di questa opportunità di elusione fiscale hanno approfittato in tanti. Su di essa l’Irlanda ha costruito il proprio miracolo economico.
Il fatto che Vastager abbia ventilato per gli Stati che si ritengono ingiustamente danneggiati dalla “triangolazione irlandese” l’opportunità di potersi rifare anch’essi su Apple la dice lunga sull’orientamento della Commissione. Rimane la curiosità di capire cosa faranno nel caso specifico l’Italia e gli altri Paesi interessati.
Ma sono dettagli. È chiaro che la decisione di Vestager ha aperto un fronte che non riguarda solo i rapporti tra Ue e Usa e fra legislazioni fiscali nazionali e web companies. Dal cilindro della sentenza Apple” è uscito il coniglio della coerenza fiscale dell’Europa. Tema ostico e fortemente divisivo visti gli interessi in gioco. Ma non vi è dubbio che il futuro dell’Ue passa anche da qui. Anzi, il fisco non può che esserne uno dei pilastri fondanti.