Venti miliardi di dollari. Tanto prevede di investire
l’amministrazione Obama nei prossimi anni nella sanità
elettronica. Una cifra impressionante, dati i tempi di crisi, che
l’inquilino della Casa Bianca ha voluto inserire nel suo più
ampio progetto di riforma sanitaria. “Le rivoluzioni si fanno
anche con la tecnologia”, ha detto il presidente Usa esponendo la
sua iniziativa al Congresso. E proprio la parte relativa agli
investimenti in e-health ha trovato un consenso bipartisan. Come a
dire che l’innovazione messa al servizio della salute non deve
scontare le divisioni politiche.
E in Italia? Lungi dall’avvicinarsi al budget Usa – vuoi
ovviamente per differenze di “grandezza” vuoi per ragioni
culturali – il Paese, pur vantando eccellenze di tutto rispetto
(Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana), sconta come in altri
campi il dispiegarsi di un’innovazione senza sistema. Ovvero la
mancanza di una cabina di regia che coordini le esperienze
all’avanguardia e che sia in grado di innescare un effetto domino
virtuoso.
“La situazione a macchia di leopardo che caratterizza l’Italia
non è negativa in assoluto – spiega però Luca Buccoliero, docente
Marketing Pubblico alla Bocconi di Milano -. Il problema vero è
che la macchia non si ‘espande’, le best practice non vengono
messe a fattor comune utilizzando le strategie del riuso che
consentirebbero applicazioni di modelli innovativi praticamente a
costo zero”.
In questo contesto i governi che si sono succeduti hanno provato ad
agire mettendo in campo iniziative che andavano nel senso di una
unitarietà di azione. Lo ha fatto l’ultimo governo Prodi,
rilanciando nel 2006 il Tavolo di confronto sull’e-health tra
governo e Regioni, poco utilizzato dall’attuale esecutivo che
invece ha preferito lavorare per obiettivi specifici come quelli
del piano E-gov 2012. Il ministro della PA e Innovazione, Renato
Brunetta, in tandem con il collega della Salute Ferruccio Fazio, ha
identificato gli obiettivi di medio termine: certificati di
malattia e ricette digitali. Due teste d’ariete per la
strutturazione del fascicolo sanitario elettronico (Fse) che – come
ha più volte ribadito il ministro – rappresenta “il massimo di
innovazione e rivoluzione di sistema”. Tutte queste iniziative
farebbero risparmiare oltre l’1% (più di 1 miliardo euro) dei
107 miliardi euro di spesa sanitaria ogni anno.
E in attesa della rivoluzione Fse che trasformerà la sanità in
una rete integrata di operatori di settore, cittadini ed enti, che
fare?
La risposta la dà l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Ict in
Sanità, realizzato dalla School of Management del Politecnico di
Milano, secondo cui per rendere il sistema sanitario efficace e
sostenibile è necessario spostare, tramite l’Ict, i servizi
dall’ospedale al territorio: i sistemi informativi dovranno
garantire l’interoperabilità allargata e la possibilità di
integrazione tra i diversi attori (medici di base, ospedalieri,
servizi sociali) anche oltre i confini regionali.
“La questione dell’interoperabilità è dirimente – rimarca
Laurence Goasduff, Senior PR manager Gartner -. I governi si devono
prima di tutto impegnare a definire i protocolli di comunicazioni
per la trasmissione dei dati. Solo così la sanità può diventare
una rete”.
Ma per trasformare il settore in una rete interconnessa servono
infrastrutture di Tlc veloci e capaci di contenere la mole di
informazioni sanitarie: serve la banda larga, insomma. “È chiaro
che l’innovazione si fa in primis sulle reti di Tlc – riprende
Buccoliero -. In Italia scontiamo una forte arretratezza: il
digital divide affligge ancora ampie aree del Paese e,
probabilmente, la congiuntura economica non permette investimenti
massici in questa direzione. Sarebbe utile puntare alle reti
mobili, come è stato fatto in Giappone dove il governo ha messo in
campo un progetto di copertura 4G, con costi bassi e sostenibili
anche in congiunture economiche non favorevolissime”. E sulla
questione banda larga batte anche Confindustria. Il delegato della
rappresentanza degli industriali per le Comunicazioni e lo Sviluppo
della banda larga, Gabriele Galateri di Genola, ha più volte
ribadito la necessità che il governo mantenga gli impegni del
piano Romani-Brunetta contro il digital divide. “Altrimenti il
miliardo di risparmi che si dovrebbe generare con la
digitalizzazione dei certificati, delle ricette e delle cartelle
cliniche rischia di rimanere una chimera”.