Scuola digitale, Ferri: “Parola d’ordine: centralizzare”

Il docente alla Bicocca: “Il piano nazionale ha funzionato bene laddove i progetti sono stati presi in mano dagli Uffici Scolastici regionali, come in Emilia-Romagna e Lazio. Dove non è stato fatto si viaggia a scartamento ridotto”

Pubblicato il 23 Set 2016

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«Un piano con tante luci e poche ombre». Paolo Ferri, docente di Teoria e tecnica dei Nuovi Media Tecnologie didattiche all’Università Milano Bicocca, in buona sostanza promuove il Piano nazionale Scuola digitale (Pnsd), varato lo scorso anno dal governo.

Facciamo un bilancio del primo anno di attuazione.

Dopo 20 anni – l’ultimo tentativo risale al 1997 con Luigi Berlinguer ministro dell’Istruzione- l’Italia ha finalmente un programma organico di innovazione che punta a colmare il gap con il resto dell’Europa che sembra funzionare.

Per quale motivo questo piano sta dando risultati rispetto a quelli avviati in passato?

Perché ha delineato un nuovo indirizzo epistemologico e operativo per la digitalizzazione della scuola: meno hardware – attraverso il Bring your own device – e più investimenti sulla banda larga, sulle persone e sulla formazione. Si tratta di un’idea “disruptive” rispetto al passato.

In che senso?

Le tecnologie devono essere messe al servizio dell’apprendimento attivo degli studenti e delle pratiche innovative degli insegnati e non viceversa. L’innovazione educativa, infatti, non può prescindere da un’interazione intensiva docente-alunno, anche se abilitata dalle tecnologie.

Il governo ha stanziato un miliardo per il Pnsd. È sufficiente, a suo avviso?

Ovviamente no, ma certamente si sono indirizzate le risorse laddove prioritariamente necessarie. Penso al finanziamento alla formazione digitale dei docenti e del personale oppure ai bandi che puntano a migliorare l’infrastruttura digitale della nostra scuola, come quelli sulla banda larga e il wifi. Oppure, ancora, a quelli per la creazione di laboratori territoriali per la scuola superiore e di altelier creativi per la primaria.

Nella pratica si sono rilevati dei problemi nell’attuazione. La nomina degli animatori digitali, ad esempio, prosegue a singhiozzo mentre molti istituti non riescono a creare il “team di innovazione” ovvero quel gruppo di insegnanti che si dovrebbe occupare di didattica digitale. Non è tutto oro quello che luccica allora?

Si tratta di problemi emersi in quelle Regioni che non hanno scelto una gestione centralizzata, a livello di Ufficio Scolastico Regionale, dell’attuazione dei vari provvedimenti. Laddove si è centralizzato – Emilia Romagna, Lazio e Basilicata, ad esempio – il programma sta funzionando. Dove non si è scelta questa strada– Lombardia e Veneto ne sono l’esempio lampante – si viaggia a scartamenti ridotto. È la burocrazia che rischia di far fallire tutta la strategia.

Cosa accade se non ci centralizza?

Spesso le nomine sono gestite in maniera puramente burocratica mentre i programmi di formazione erogati per animatori e team dell’innovazione sono di qualità discutibile e poveri nei contenuti. In alcune province, poi, i programmi di formazione non sono ancora partiti. Certo, va detto che i finanziamenti erogati dal Miur non sono elevati, ma limitazioni di budget hanno condotto i responsabili dei Poli formativi a sottovalutare la portata e la rilevanza dell’azione di formazione. L’eccesso di burocrazia ha inoltre impedito la creazione di network tra le scuole e gli stakeholder territoriali. A mancare soprattutto la capacità di fare rete dei dirigenti titolari degli snodi formativi che non stati in grado né di coinvolgere gli enti ricerca e le Università nel processo per acquisire competenze né di relazionarsi con le imprese e le Fondazioni, e gli Enti del territorio per attrarre finanziamenti che permettono di rendere più ricca e qualitativamente più elevata la formazione offerta.

Come si può superare l’ostacolo burocrazia?

Un possibile consiglio da dare al Ministro è quello – molto poco usuale in tempi di “federalismo secessionista” – di “centralizzare” il più possibile in processo e di “disintermediare” il lavoro dei Poli e degli Snodi territoriali inefficienti, allocando più potere di decisione e di raccordo negli Uffici Scolasti regionali o al Ministero stesso per evitare che i particolarismi locali depotenzino e annacquino il grande impegno legislativo, normativo e di indirizzo profuso dal Miur in questo caso. A volte un po’ di “centralismo” può far bene. Bisogna trovare una soluzione nei prossimi mesi per evitare che l’impatto di questo provvedimento venga “limitato” e il suo poter innovativo “frustrato” dai particolarismi dei territori.

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