Il problema del ruling
È opportuna una concorrenza fiscale fra Stati dell’Unione europea? Il tema riguarda, in realtà, la sola imposizione sul reddito, visto che quella sui consumi e sulla raccolta di capitali è già da tempo armonizzata.
Anche in questo campo forme di coordinamento esistono: sono state armonizzate le principali fattispecie di ritenute alla fonte su dividendi, interessi e royalties. Sono state concordate procedure di collaborazione ai fini dell’accertamento (con joint tax audit) e di riscossione coattiva. Non vi è, invece, armonizzazione sulle aliquote (sia pur solo edittali), sulla base imponibile e sui regimi speciali derivanti da accordi amministrativi (rulings).
Questi ultimi, peraltro, sono i più spigolosi perché consentono una effettiva riduzione del carico fiscale non misurabile dall’esterno neppure attraverso una approfondita conoscenza (e comparazione) fra sistemi diversi, in quanto frutto di accordi privati fra singolo contribuente e fisco del paese in cui opera. È evidente la distorsione della concorrenza che ne deriva e sacrosanto il sussulto d’orgoglio di Margrethe Vestagher nel caso Apple: caso che si basa proprio su un ruling che riduce la già modesta aliquota edittale irlandese – 12,5 per cento – a una frazione minimale (perlopiù, nella media, inferiore allo 0,2 per cento annuo). La Commissione UE, del resto, è ben consapevole che la prassi non è stata un’esclusiva del sistema fiscale irlandese ma che, per dire, anche Olanda e Lussemburgo vi hanno sovente partecipato tanto da avere in corso inchieste analoghe con riferimento ad altre altisonanti multinazionali, americane ed europee (vedi Starbucks e Fiat).
Le proposte della Commissione
In che direzione occorre allora muovere? Primo, non conta tanto sapere se la concorrenza fiscale fra stati è giusta o sbagliata. Conta che sia visibile e non nasconda aiuti di stato. L’armonizzazione delle aliquote edittali ha perciò perso smalto, non solo perché è (politicamente) difficile, ma soprattutto perché poco conta allinearle se non si omogeneizza la base imponibile.
E sull’armonizzazione della base imponibile la Commissione UE lavora da tempo. Nel 2011 è stato varato un progetto di Common Consolidated Corporate Tax Basis che consente ai gruppi operanti in più paesi di predisporre una sorta di consolidato fiscale basato su un’unica normativa comune. La Ccctb comporterebbe l’elisione delle operazioni intercompany (che permettono spostamenti di base imponibile da un paese all’altro); consentirebbe la compensazione di perdite realizzate in un paese con gli utili realizzati in un altro; aiuterebbe la visione, anche commerciale, della UE come territorio omogeneo, anziché come sommatoria di 28 diverse legislazioni. La Ccctb, riservata a imprese di certe dimensioni e requisiti, è però facoltativa. Ma se è opzionale, la sceglieranno solo quei gruppi che ritengono di derivarne un vantaggio: non gli altri, quelli più interessati alla diversità di regimi e, quindi, alle distorsioni che ne derivano. È, poi, evidente la complicatezza del suo varo, con la necessità di prevedere forme di compensazione fra stati. Per questo nel giugno 2015 si è fatta strada un’ipotesi semplificatoria, la Common Corporate Tax Basis (Cctb), che garantirebbe solo la omogenea determinazione di singole basi imponibili. Non vi sarebbero rettifiche né nei rapporti intercompany (se non quelle già previste nei Trattati contro le doppie imposizioni e basate sul cosiddetto valore normale) né sulla allocazione dei profitti e, tantomeno, sulla determinazione delle aliquote edittali. La Cctb sarebbe obbligatoria.
L’ipotesi ha certamente il suo fascino, ma temo conservi una dose di astrattezza inidonea a cimentarsi con una la situazione che richiede estrema concretezza e immediatezza. La costruzione di una base imponibile comune si scontra, infatti, con mille rivoli frutto di 28 (o, via Brexit, anche solo 27) storie microeconomiche e tributarie diverse. Si scontra con discipline transitorie in corso ovunque (rivalutazioni, fondi rischi, fiscalità anticipata o differita) con conseguenze difficilmente misurabili in modo rapido e oggettivo. Obbliga a prendere posizione su voci di rilievo (trattamento dei crediti, degli impianti, delle spese di ricerca e sviluppo, degli immobili) che fotografano la diversità fra paese e paese. Insomma, è ancora troppo complessa per intervenire subito e senza rilevanti (prezzi politici e) costi aggiuntivi.
Si potrebbe ricorrere, allora, a misure emergenziali, ma caratterizzate da semplicità e oggettività. La disciplina in questione andrebbe applicata solo a imprese operanti in più paesi UE e di certe dimensioni, si potrebbe quindi rendere obbligatoria per loro la redazione di un bilancio (individuale) basato sui principi Ias (International Accounting Standards) e utilizzare la somma dei risultati che ne derivano come base imponibile UE. Quest’ultima, magari depurata dei flussi verso paradisi fiscali, potrebbe poi essere attribuita a ciascuno stato coinvolto sulla base di certi parametri. Ad esempio: fatturato nazionale su fatturato UE; oppure attivo tangibile nazionale su attivo tangibile UE; oppure ancora un mix fra i due. Occorrerebbe, poi, formare una task force comune che intrattenga i rapporti amministrativi con il gruppo in questione, sia ai fini delle attività di accertamento e riscossione, sia ai fini dell’eventuale concessione di rulings (se l’organo concedente è comune ai 28 non privilegerà alcuno stato ai danni di altri). Per le eventuali contestazioni si può pensare a una sezione della Corte di giustizia europea specializzata in materia tributaria.
Tratto dal sito www.lavoce.info