“Bisogna giocare duro altrimenti l’industria italiana muore”. Giulio Sapelli, economista e docente alla Statale di Milano, non usa mezzi termini quando parla del futuro – nemmeno troppo remoto – del nostro Paese.
Il ministro Calenda ha varato il piano Industria 4.0 e il governo ha inserito in legge di Stabilità di primi interventi. Crede che la strategia possa far ripartire la politica industriale in Italia?
Industria 4.0 è l’ultima chiamata per il Paese. La strategia del governo ha il pregio di rimettere al centro gli investimenti pubblici: dopo anni in cui sono state le regole – penso al pareggio di bilancio o al 3% deficit/pil – a determinare le politiche dell’industria ora Calenda prova a mettere fine alla decadenza degli investimenti, con una dose massiccia di intervento pubblico laddove manca quello privato. Penso a tutto il piano banda ultralarga, ad esempio: il governo ha capito che il tema delle infrastrutture è imprescindibile se si vuole fare lo IoT, la meccatronica evoluta, il cloud.
Lei giustamente dice che l’Industria 4.0 è l’ultima chiamata per il Paese. Ma c’è chi teme la distruzione del lavoro. Lei che idea si è fatto?
È chiaro che l’avvento della robotica cambierà radicalmente il lavoro. La sfida è, appunto, accogliere il cambiamento distruggendo meno attività possibili, anzi facendole migrare dalle medium skills alle high-skills e scommettendo sull’interazione uomo-macchina. E non certo sulla “scomparsa dell’uomo”.
Calenda lavorerà a stretto contatto con il ministero dell’Istruzione. Si punta ad implementare il piano scuola digitale, a facilitare l’alternanza scuola-lavoro fino a strutturare corsi ad hoc per le competenze di Industria 4.0: atelier creativi, corsi di tecnologia. La convince l’impegno?
Non del tutto. Nel senso che per fare Industria 4.0 bisogna mettere mano al più presto alla riforma dell’istruzione tecnica. Oggi ci sono 27 indirizzi, assolutamente inutili allo sviluppo industriale.
Come vogliamo metterci mano?
Riducendo il numero di indirizzi relativamente alle esigenze dello sviluppo industriale del Paese. Bastano 3 indirizzi, ma strategici. Mi riferisco alla meccanica, alla poligrafica e all’informatica. Da rivedere anche il sistema dell’università. È necessario un incentivo agli studenti che si laureano in ingegneria, in fisica, in chimica e nelle materie umanistiche. Nei Paesi scandinavi fanno così. E anche nel programma di Hillary Clinton c’è un capitolo dedicato a questo: la fine dei prestiti d’onore e l’impegno al pagamento delle rette degli studenti più meritevoli che scelgono discipline Stem. E dunque bene gli investimenti, ma solo se accompagnati da un cambiamento culturale che inizia dalla scuola e dall’università.
Entriamo nel dettaglio del piano Calenda. Tra gli strumenti, la proroga del super-ammortamento del 140% sull’acquisto di beni strumentali e l’iper-ammortamento, al 250% sull’acquisto di beni strumentali e immateriali. E ancora 1 miliardo al Fondo di Garanzia per le Pmi che significa fino a 25 miliardi di credito per le piccole e medie imprese. Funziona questa architettura finanziaria?
Funziona a patto che si decida una volta per tutte di sforare i parametri che ci impone l’Europa, come fanno Francia e Germania d’altronde. Non ci è mai visto un Paese che voglia investire preoccupandosi del tetto del debito.
C’è un pezzo di sindacato restio all’innovazione. C’è un modo per tirarlo dentro la trasformazione in corso?
Ci sono pezzi di sindacato che dimostrano di non conoscere il tessuto produttivo italiano, che ancora credono che l’operaio stia nella grande industria quando la maggior parte dei metalmeccanici lavora nelle piccole e medie imprese. Se il sindacato non capisce questo e non tiene conto che la trasformazione digitale è proprio da lì che deve partire – dalle Pmi – direi che è destinato a rimanere fuori dai grandi cambiamenti industriali.