«Non si cresce senza innovazione». Chiaro. Talmente chiaro che il
concetto si è imposto ormai al pari di uno slogan. Non c’è
politico, uomo d’azienda, esperto di qualsivoglia disciplina,
opinionista, rappresentante di questa o quella associazione,
organizzazione, federazione, sindacato, società d’analisi – e la
lista potrebbe allungarsi occupando troppe righe in questo
ristretto spazio – che sull’innovazione non abbia speso almeno
qualche parola.
Parlare di innovazione è un “must”. L’Italia è piena di
oratori attenti ai doveri e ancor più alle mode. Il problema è
che mentre gli altri (Obama & co.) sull’innovazione – declinata
nelle sue svariate forme – hanno fondato le basi della ripresa con
azioni concrete (stanziamento di fondi, sostegno alle imprese e al
mondo della ricerca, sgravi fiscali), in Italia fra il dire e il
fare c’è di mezzo il solito mare.
Innovare: “mutare in modo più o meno esteso e profondo mediante
l’introduzione di sistemi e criteri nuovi”, recita il
Devoto-Oli. Ma se alla base di qualsiasi rivoluzione c’è un
mutamento, il sillogismo è presto detto: l’Italia non è il
Paese delle rivoluzioni. Creare l’humus necessario a far
germogliare il seme dell’innovazione spetta ai governanti in
primis. Ma non è da meno il ruolo degli imprenditori e
dell’accademia della formazione. La faccenda si fa ancora più
complessa quando innovazione fa rima con Ict. L’Information &
Communication Technology è considerato uno dei pilastri portanti
della nuova economia. Il linguaggio dei bit è l’esperanto della
globalizzazione. Informatica, software, Internet sono parole
entrate a far parte del vocabolario di cittadini, imprese e
pubblica amministrazione. Impossibile restare alla porta: l’Ict
ha una capacità pervasiva dirompemte quanto incontenibile.
La green economy, tanto per accennare ad una delle principali
partite in gioco, si farà anche e soprattutto con l’Ict: le
reti, a cominciare da quelle elettriche, sono destinate a
trasformarsi in smart grid, reti intelligenti in grado di smistare
le risorse sulla base delle effettive esigenze. E i consumatori
potranno tenere sotto controllo i consumi energetici e tagliare la
bolletta. Tutte le infrastrutture cosiddette critiche saranno
gestite grazie all’Ict.
Nasceranno le smart cities, città governate dall’intelligenza
artificiale: con l’Ict si gestiranno traffico e illuminazione,
manutenzione e ordine pubblico, e a effetto domino tutto finirà
nella grande “Rete”. Le smart cities saranno popolate da smart
citizen: i servizi saranno sempre in “tasca” grazie a
dispositivi mobili evoluti attraverso cui sarà possibile
interagire con la PA, accedere alla propria cartella sanitaria,
fare acquisti, leggere i giornali, guardare la tv.
Nonostante ciò nel nostro Paese l’Ict versa in pessime
condizioni. Il quarto comparto industriale nazionale – con oltre
380mila addetti all’attivo – è reduce da un 2009 horribilis. Il
primo semestre 2010 ha visto sì un’inversione di tendenza, ma il
consuntivo a fine giugno risulta ancora in rosso e il trend
negativo penalizzerà il settore fino a fine anno. Ma più che i
numeri a preoccupare è la mancanza di una strategia Paese, di
progettualità d’insieme, di una politica industriale ad hoc.
Incentivi, credito fiscale, accesso ai finanziamenti bancari:
questi, secondo gli addetti ai lavori, gli interventi necessari e
urgenti per dare ossigeno alle imprese e soprattutto per stimolare
la nascita di un mercato in grado di trainare la ripresa, di
innescare l’effetto domino di cui sopra.
Il Piano Romani (anti digital divide) e il Piano Brunetta (e-gov)
sono inevitabilmente ostacolati dalla mancanza di fondi. Gli 800
milioni di euro destinati a colmare il gap digitale sono svaniti
nel nulla. E senza infrastrutture minime sarà difficile fare la
rivoluzione dei servizi pubblici e dematerializzare la PA. Oltre al
danno la beffa: il governo batte cassa alle Regioni che in cassa
hanno ben poche risorse. Fra buchi nella sanità e mancati introiti
dell’Ici sulla prima casa si conteranno sulle dita di una mano le
PA in grado di sostenere la digitalizzazione.
Intanto le telco litigano sulle nuove reti ultrabroadband: tutti si
dicono pronti a sostenerne la realizzazione, ma nessuno ha
realmente il cash. E si litiga sulla questione delle regole di
accesso, sulle tecnologie, sulla geografia dei mercati.
Intanto Ibm ed Engineering hanno deciso di uscire da Assinform, la
principale associazione Ict nazionale. E il rischio che il singolo
caso provochi l’emorragia è alto. La lobby non è riuscita a
fare lobby. Non ce l’ha fatta a imporre il ruolo dell’Ict in
qualità di “motore” della crescita, della competitività, del
futuro. Eppure l’innovazione tiene testa nei dibattiti. Parole,
parole, parole.