Informatica sì o informatica no? L’amletico interrogativo
ritorna a tenere banco – ed è proprio il caso di dirlo visto che
stiamo parlando di scuola – nel dibattito politico di casa
nostra. Dopo le controverse “Tre I” (inglese, impresa e
informatica) con cui i governi, non solo quelli di centrodestra,
hanno lanciato progetti di riforma scolastica sembrerebbe essere
arrivata l’ora delle due I, ovvero inglese ed impresa. Che fine
ha fatto dunque la terza I? Il taglio delle compresenze negli
istituti primari, la soppressione della figura del tecnico di
laboratorio e la riduzione delle ore di tecnologia nelle scuole
secondarie di primo grado, previste dalla riforma Gelmini, ha
allarmato genitori e alunni preoccupati di non poter più contare
sul laboratorio di informatica. Il governo, però non sembra dare
peso alla cosa e continua a spingere sulla dotazione tecnologica
per la didattica. Secondo il piano E-Gov 2012 entro tre anni
10.500 istituti, 500mila insegnanti e oltre 7 milioni di studenti
potranno contare su tecnologie per la formazione scolastica – pc,
laptop e lavagne interattive digitali soprattutto – puntando a
trasformare il settore scolastico in una realtà all digital.
Finora ne sono state consegnate 1.680. A queste vanno aggiunte le
14mila dell’Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia
scolastica (ex Indire).
Numeri importanti, certo, ma che vanno a fare il paio con i dati,
meno confortanti, sulla diffusione dei pc, contenuti nello studio
redatto dal ministero dell’Istruzione, “La scuola in cifre
2007”. Nell’anno scolastico 2007/2008, dunque, su 10.400
scuole censite (il 95,3% del totale) il numero complessivo di
computer e laptop ha raggiunto le 614.261 unità (+5,7% rispetto
all’anno 2005-2006). Una diffusione maggiore si rileva negli
istituti del Nord che possono contare su una copertura
tecnologica del 41,1%; nelle regioni del Centro la dotazione
hi-tech riguarda il 18,4% delle scuole mentre al Sud e nelle
Isole il 40,5%. In media, un pc per 9,7 studenti al Nord e per
11,1 studenti al Sud. I numeri parlano di un sistema scolastico
in forte digital gap, non in grado di venire incontro alle
esigenze fomative dei ragazzi, sempre più digitalizzati e
propensi ad apprendere attraverso l’utilizzo delle nuove
tecnologie.
Inoltre ancora non è chiaro cosa significhi fare informatica a
scuola: se studiare le nozioni di base (come accade negli
istituti ad indirizzo scientifico-tecnologico) oppure
considerarla uno strumento trasversale alla didattica. Già il
ministro dell’Istruzione del governo Prodi, Giuseppe Fioroni,
aveva eliminato l’informatica dalle indicazioni nazionali per
il curricolo (ovvero dai programmi scolastici, decisi dalla
commissione presieduta allora dal professor Mauro Ceruti),
scegliendo di inserire l’uso delle tecnologie nell’ambito
dello studio delle tradizionali discipline. “L’informatica si
impara imparando”, dichiarò all’epoca. Come a dire che il
valore aggiunto dell’informatica sta soprattutto nella sua
capacità di facilitare i processi di apprendimento tramite
l’utilizzo di immagini e di lunguaggi che al giorno d’oggi
fanno, quasi “naturalmente” parte delle mappe cognitive degli
studenti. Uno skill che anche l’attuale governo sembra
considerare fondamentale.
“Lo studio dell’informatica rimane parte integrante del
percorso formativo nella scuola di ogni ordine e grado – ci tiene
a precisare Mariastella Gemini -. L’insegnamento
dell’informatica svolge un ruolo trasversale interagendo con
tutte le altre materie. Agli insegnanti verranno progressivamente
messi a disposizione strumenti che possano facilitare questo
processo”.
Un esempio concreto? “L’uso delle Lim, appunto, che
garantiscono un elevato livello di interazione e un alto grado di
interdisciplinarietà. Oppure ancora la possibilità di scaricare
i libri di testo tramite Internet e sfruttare fino in fondo le
potenzialità dell’e-learning e della formazione a distanza”,
risponde la titolare dell’Istruzione. Ma i dati sulla tipologia
di connessione, sempre contenuti nel report del ministero, non
sono confortanti. Solo il 56% degli istituti italiani può
contare su velocità superiori ai 640 Kb/sec (la maggior parte di
essi sceglie un collegamento Adsl). L’altra parte – ovvero il
44% – non è ancota dotata di reti veloci. Le potenzialità
degli strumenti informatici rischiano di rimanere inespresse se
non si agisce sul digital gap che attanaglia il Paese.