“Se nel decennio prima della crisi 1997-2007 il capitale Ict
fosse cresciuto in Italia allo stesso tasso con il quale è
cresciuto nel paese in cui è cresciuto maggiormente, ovvero il
Regno Unito (15,7% annuo contro il 10,3% italiano), il suo
contributo alla crescita del valore aggiunto sarebbe stato di 7,1
punti percentuali”. A dirlo il Centro studi di Confindustria che
dedica al tema dell'innovazione tecnologica il rapporto
“Scenari
economici” di dicembre.
“In prospettiva – prevede lo studio – se nei prossimi 5 anni si
realizzassero investimenti tali da portare l’intensità del
capitale Ict sui livelli di quelli odierni del Regno Unito,
assumendo che il capitale non Ict cresca in Italia allo stesso
tasso con il quale è cresciuto in passato, questo genererebbe una
crescita del valore aggiunto di circa 4 punti percentuali”. E,
considerando che dal 2002 al 2007 la crescita complessiva del Pil
italiano è stata del 5,8%, si tratta di un contributo molto
rilevante.
Ma come si potrebbe superare l’impasse? Secondo gli esperti di
Confindustria la chiave di volta sta nell’introduzione, da parte
delle imprese, di cambiamenti organizzativi complementari
all’adozione delle Ict che ne moltiplicano gli effetti:
convertendo tutti i processi aziendali da tradizionali a digitali,
favorendo l’accesso ai dati che riguardano l’impresa a un
insieme più ampio di lavoratori, decentralizzando l’autorità e
rendendo le gerarchie interne più piatte, premiando il merito e
non l’anzianità dei lavoratori e, infine, favorendo
l’accumulazione di capitale umano interno.
In questo senso diventa dirimente “la variabile banda larga. In
Italia il tasso di penetrazione del broadband è però inferiore a
quello della media Ocse: il numero di connessioni da rete fissa è
20 ogni 100 abitanti, contro le 30 di Francia e Germania.
Per superare le criticità del rame si potrebbero sfruttare le
potenzialità della rete in fibra ottica ma “manca quasi
completamente la copertura del cosiddetto ultimo miglio” si legge
nello studio, che fa riferimento anche al memorandum di intesa
firmato di recente al tavolo del ministero dello Sviluppo economico
e le telco per la realizzazione di una rete di nuova generazione.
“Si tratta di un primo passo potenzialmente positivo, ma per ora
non sono chiari né gli obiettivi in termini di percentuale della
popolazione da raggiungere e di capacità, né l'ammontare
delle risorse da destinare all'operazione”.
In conclusione “un maggiore utilizzo delle potenzialità della
rete, per il quale la disponibilità della banda larga è una
precondizione, permette alle imprese di sfruttare le Ict sia per
migliorare la propria organizzazione interna, sia per interagire in
modo più efficiente con clienti, fornitori e pubblica
amministrazione”.
La corsa a ostacoli dell'Ict, secondo un sondaggio del Centro
studi di Confindustria, vede la scarsità di infrastrutture al top
per il 70% delle aziende, mentre per il 57% delle aziende il
problema principale è l'inconsapevolezza degli imprenditori,
che non capiscono i vantaggi legati agli investimenti in Ict. Per
il 10% delle aziende, poi, è difficile trovare personale
compentente sul fronte tecnologico e per il 52% i cambiamenti
organizzativi costano troppo.
Il computer è diffuso nella stragrande maggiornaza delle aziende,
ma soltanto una piccola parte dei lavoratori ha accesso ai pc.
Soltanto il 6% delle aziende manifatturiere usa l'e-commerce
nel nostro paese, a fronte di una media Ue del 17%.
"Il ruolo dell'università in Italia deve cambiare – ha
detto Francesco Profumo, Rettore del Politecnico di Torino –
L'insegnamento ex cathedra è morto, gli studenti hanno bisogno
di imparare strutture logico-deduttive, il tema del cyberspazio è
centrale per la creazione di una nuova classe dirigente".
L'università, secondo Profumo, si deve trasformare in una
"Knowledge factory", un'ibridazione di saperi
"condivisi con gli studenti – aggiunge il Rettore – che spesso
ne sanno molto di più dei professori. Gli studenti sono ormai
nativi di internet".
Per riprendere il cammino dello sviluppo, le imprese di casa nostra
dovrebbero innestare nell'Ict le competenze tipicamente
italiane: "Gusto, sensibilità, estetica, attenzione ai
desideri", aggiunge Profumo, precisando che soltanto così il
nostro paese potrà tenere il passo di economie che per capacità
di produzione e crescita sono in grado di "copiare i saperi in
maniera molto più rapida di noi".
L'ambasciatore americano David Thorne ha detto che per uscire
dalla crisi "l'Italia deve puntare sull'Ict abbattendo
la burocrazia e puntando sulla flessibilità – ha detto Thorne – la
situazione in Italia è preoccupante: nel 2009 soltanto il 3% del
Pil è stato investito in Ict a fronte del 9% in Gran Bretagna e
dell'8% in Germania". La creazione di una rete a banda
larga è fondamentale, ma non basta "bisogna ridurre i vincoli
per le aziende", aggiunge l'ambasciatore. "Soltanto
il 10% degli italiani fa acquisti online, a fronte del 55% in Gran
Bretagna e Germania", dice l'ambasciatore statunitense,
che sottolinea un'anomalia tutta italiana: "Soltanto il
50% degli italiani usa internet – dice Thorne – ma 17 milioni di
italiani usano Facebook". In tutto questo, le imprese sono
indietro sul fronte digitale, un gap che gli Usa "vogliono
contribuire a ridurre – chiude Thorne – collaborando con
Confindustria e con il Governo per promuovere gli investimenti nel
settore Ict".
E mentre Paolo Gentiloni, deputato del Pd punta sulla necessità
che l'Italia si munisca di una "agenda digitale nazionale
– dice – con obiettivi ben definiti, come del resto hanno diversi
paesi euroei fra cui ad esempio la Grecia", il presidente di
Confindustria Emma Marcegaglia sottolinea che "maggiori
investimenti in Ict sono importanti, ma da soli non bastano – dice
– c'è un problema sul fronte della domanda: se il 57% delle
imprese non coglie i vantaggi legati agli investimenti in Ict,
c'è un problema forte di consapevolezza che va superato di
pari passo con le riforme necessarie per superare la crisi".