«Prima o poi la tempesta finirà, anche se nessuno può dire
quando e con quali costi, ma nel frattempo non possiamo limitarci a
stare fermi. L’Italia, più degli altri Paesi occidentali, ha
infatti un problema di crescita, deve recuperare il tempo
perduto». La pensa così Elserino Piol,
imprenditore che di ricette per la crescita se ne intende.
E che sull’Ict ha fondato tutta la sua carriera di successi.
Il venture capital funziona ancora?
Il venture capital ha svolto un ruolo fondamentale per
l’innovazione. Certo oggi, in un momento in cui la finanza non
gode certo di grande popolarità, diventa difficile persino
parlarne. Ma in realtà il venture capital è molto importante.
Soprattutto in un Paese, come l’Italia, che ha bisogno di
recuperare il tempo perduto.
Investire in Ict conviene davvero?
L’Ict è oggi l’unica industria globale e pervasiva, anche se
negli ultimi tempi personalmente non ho visto innovazioni
dirompenti come sono state al loro tempo la telefonia mobile o
Internet. Molte aziende stanno virando verso settori quali
l’energia e l’ambiente che oggi sono molto promettenti. Ma ci
sono comparti dell’Ict, come quello di Internet, di cui abbiamo
finora visto solo la punta dell’iceberg in termini di
potenzialità. Il Web resta e resterà dunque protagonista.
Penso, ad esempio, all’evoluzione della pubblicità in Rete e
all’impatto che avrà sugli altri media. Ma penso anche al
cosiddetto “Internet delle cose”, che consente agli oggetti e
alle macchine di parlare fra loro senza l’intermediazione delle
persone. Internet può avere un ruolo – oggi ancora sottovalutato o
non molto evidenziato – nel marketing, sfruttando la coda lunga,
che permettere di presentare al mercato anche prodotti di minor
diffusione.
C’è spazio per tutti? O solo per i big?
Un uso più esteso del commercio elettronico, finora poco
impiegato dalle aziende italiane, sarebbe ad esempio fondamentale
per lo sviluppo delle nostre piccole e medie imprese. E qui veniamo
ad un punto cruciale. Mentre i sistemi informativi delle grandi
aziende ci sono e si assomigliano tutti, c’è ancora difficoltà
in Italia a portare l’Ict nelle Pmi. La logica Software as a
Service potrebbe aiutare, ma il vero problema è che le soluzioni
non soddisfano le esigenze delle nostre imprese, visto che nascono
altrove e che l’industria italiana dell’Ict manca di
creatività. Questo a mio parere è un grosso problema per il
Paese, uno dei principali.
Se non siamo più capaci di fare innovazione basata sulle
tecnologie, come si fa allora a guardare positivo?
Ciò che conta è evidenziare che l’innovazione va vista in
chiave sistemica. Non serve, ad esempio, al Paese investire di più
in ricerca se poi non c’è il modo di portarla al mercato, ossia
di passare dal laboratorio alla vita reale, e se non ci sono gli
strumenti per finanziare lo sviluppo di nuove aziende. Basta
buttare l’occhio oltreconfine per rendersi conti che per dare
vita a prodotti e servizi nuovi servono aziende nuove. Amazon,
Google, eBay, ad esempio, hanno avuto successo perché sono nate
con un nuovo modo di pensare, nuovi processi. Perché hanno
l’innovazione nel dna. Ciò certamente non esclude la
necessità e la possibilità di innovazione e di ottimizzazione dei
processi anche in settori tradizionali, come il manifatturiero
delle cosiddette “4A” del made in Italy ossia
abbigliamento-moda, arredo-casa, agroalimentare-vini e
automazione-meccanica. Da alcune di queste aziende, spesso leader
mondiali in segmenti di nicchia, bisogna anzi prendere esempio e
imparare considerato che il loro modello funziona. Mi riferisco
al modello delle multinazionali “tascabili”.
Realisticamente l’Italia dove può andare a
parare?
In Italia, dove non ci sono più grandi aziende che fanno ricerca
in settori hi-tech, certamente non possiamo puntare a dare vita
ad una nuova Olivetti o ad una nuova Telettra. Ma si può
realisticamente puntare, nel settore Ict, proprio allo sviluppo di
multinazionali tascabili. A patto però che si cavalchino
tecnologie emergenti e si usino approcci completamente nuovi.
Insomma si può fare. Ma quali sono gli ingredienti per la
nascita e l’affermazione di un sistema dell’innovazione in
grado di favorire la nascita di aziende tecnologiche anche in
questo difficile momento economico? Come si fa ad arginare la
crisi?
Ci vogliono strumenti finanziari finalizzati alla nascita di
aziende “bambine” che hanno bisogno di crescere. Ma bisogna
tenere a mente che potrebbero anche fallire. Siamo dunque nel
terreno della finanza di rischio. Anche se può sembrare strano in
un momento in cui la finanza non gode di buona fama, il venture
capital, finalizzato all’economia reale, a far nascere nuove
imprese, è una buona finanza. Il suo ruolo è dimostrato dalla
presenza di una rete significativa di venture capital in tutti i
Paesi caratterizzati da alto tasso di innovazione. In Italia il
pessimismo generato dalla bolla Internet, che negli altri Paesi è
durato due-tre anni, non si è ancora dissolto, ma qualcosa si è
mosso a partire dal 2007.
Qualche esempio concreto?
Ci sono nuove iniziative come 360° Capital Partners, promosso da
Fausto Boni, uno dei veterani del venture capital in Italia,
Innogest, Quantica, Next, il fondo dei fondi di Finlombarda, Dpixel
di Gialuca Dettori, un fondo di seed capital dedicato agli
innovatori Internet, Iban, il network italiano dei Business Angels.
Anche la PA riconosce il ruolo del venture capital. Sono segnali
positivi ma certo non sufficienti. Non bastano da soli né i
venture capital né la ricerca. Ci vogliono gli imprenditori,
possibilmente giovani, con tempo ed energie, e ciò mette in gioco
anche il sistema scolastico, la formazione dei talenti. Ma se si
comprendono e si condividono gli ingredienti per l’innovazione e
se c’è un comportamento dei protagonisti coerente con questo
sistema, penso che in Italia si possano creare tutte le condizioni
affinché il Paese torni ad essere innovativo.
Una visione di lungo periodo. Nel frattempo che si
fa?
La visione di lungo periodo è necessaria e soprattutto va portata
avanti con coerenza: una legislatura certo non basta. Ed è anche
vero che l’Italia non può aspettare.
Bisogna agire su due binari: lavorare da subito per creare
l’infrastruttura di sistema e valorizzare quel che abbiamo, che
non è poco. Bisogna, ad esempio, in ambito universitario
concentrare le risorse sulle eccellenze che possono dare risultati
a breve e su aree del Paese, penso a Milano e a Torino, dove già
c’è una concentrazione di eccellenze.
Se pensiamo agli Stati Uniti, c’è una sola Silicon Valley, non
decine sparse per il Paese. E le persone si spostano seguendo la
cultura del “go west”. Dovremmo anche noi imparare la mobilità
per non frammentare inutilmente le iniziative.
Elserino Piol: “Contro la crisi una buona finanza”
Pubblicato il 23 Mar 2009
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