La diffamazione su Facebook va giuridicamente trattata diversamente da quella a mezzo stampa: il fatto che il social network sia in grado raggiungere un ampio pubblico non basta ad effettuare l’equiparazione. La sentenza 4873/17 della 5° sezione della Corte di Cassazione aggiunge un nuovo tassello alla giurisprudenza in materia di diffamazione social.
Si tratta di una pronuncia di respingimento del ricorso del presentato dal procuratore della Repubblica di Imperia, che aveva impugnato per “abnormità” l’ordinanza con cui il gip aveva riqualificato un fascicolo relativo agli “apprezzamenti” via Facebook pubblicati nel 2013 da un imputato catanese di 60 anni nei confronti di un terzo. Respingendo il provvedimento, riporta il Sole24Ore, la Cassazione ha stabilito che nel caso in esame non si trattò di diffamazione aggravata dal fatto determinato e “dal mezzo della stampa”, ma di semplice diffamazione aggravata dal “mezzo di pubblicità”.
Il reato penale della diffamazione aggravata è regolato dall’articolo 595 del codice penale, secondo il quale “se l’offesa è recata col mezzo della stampa [57-58bis] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità […] la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro”. Il fatto che la Cassazione abbia ricondotto Facebook nella categoria “altro mezzo di pubblicità” non è di poco conto, perché esclude l’applicazione della Legge speciale 47/1948 sulla stampa che per la diffamazione aggrava la pena fino a 6 anni.
All’interno di quest’ultimo caso, spiegano i giudici nella sentenza pubblicata da Webnews, non deve essere ricompreso “l’utilizzo di nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero come forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list e Facebook ma deve rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili, strutturale e finalistico, che li connotano, sono riconducibili nel concetto di “stampa” inteso in senso più ampio“. L’offesa effettuata tramite il social network resta comunque all’interno dell’aggravante regolata dal codice penale, come stabilito da alcune pronunce recenti della stessa Corte, e quindi punibile con la pena fino a 3 anni.