Provate a cercare informazioni sul vaccino che sta per fare vostro figlio, sull’emicrania che vi affligge da qualche tempo, sulla rata della TASI, sull’ospedale in cui dovrete operarvi, sui contributi da versare all’Inps, oppure sulla vita di Pablo Escobar, sul presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, ecc. In base alle ricerche precedenti, ai dispositivi usati, alle chiavi di ricerca, i risultati potranno divergere anche sostanzialmente da utente a utente. Ma soprattutto, ciascun utente avrà un certo grado di competenze digitali grazie al quale potrà discernere le informazioni affidabili, ufficiali, da quelle che non lo sono. Il digital divide è oggi, più che la possibilità di accesso fisico al web, la capacità di valutare la qualità delle informazioni. Una delle strade per riuscire a fronteggiare l’avanzata delle fake news è quindi l’educazione all’uso dei media (digitali e non); l’altra strada è l’auto-regolamentazione, per chi fa informazione, e il presidio del mondo digitale, per tutti i soggetti un tempo semplicemente “fonti”, ora fonti e allo stesso tempo produttori di contenuti.
E’ proprio questo il caso delle istituzioni, fino a non molti anni fa placidamente ancorate a un modello di comunicazione broadcast: come scrive Charlie Beckett, Direttore del Dipartimento Media e Comunicazione della London School of Economics and Political Science, “Un mio vecchio amico che negli anni ’80 lavorava come capo ufficio stampa di una Ong internazionale dice che se, all’epoca, riusciva a piazzare un articolo nell’edizione del Guardian di quel giorno, allora il suo lavoro poteva dirsi concluso. Dato che si trattava dell’unico giornale che i suoi capi, liberali e internazionalisti, leggevano, vedere il proprio nome su quelle pagine coincideva con il parlare al mondo della loro organizzazione. A quel punto poteva anche scendere al pub per il resto della giornata. Questi erano i giorni felici dell’era pre-Internet”. Oggi invece, osserva Beckett, la lotta per l’attenzione costringe tutti (compresi i soggetti pubblici) a navigare in un paesaggio mediatico complesso, costituito da un range sostanzialmente infinito di piattaforme, canali, nodi e influencer.
Per la Pubblica amministrazione questa esigenza non si può risolvere nella retorica social – nell’aprire questo o quel canale social, nel profilo Whatsapp o nel sito “bello”. Serve una strategia di medio-lungo termine con cui l’amministrazione possa imporsi come leader nell’informazione di settore, “scalzando” quei competitor (siti, blog, quotidiani, forum, ecc.) che non sempre sono portatori di informazioni affidabili, e costruendo in questo modo una rete di relazioni con i propri stakeholder. La “mediazione” è un elemento cardine in un sistema democratico maturo e arricchisce il discorso pubblico di una pluralità di punti di vista; tuttavia, nell’attuale contesto mediatico è impensabile per qualsiasi tipo di organizzazione affidarsi unicamente alla comunicazione mediata. Per comprendere quanto la disintermediazione sia una tappa obbligata nel percorso di avvicinamento al cittadino è sufficiente consultare un paio di fonti: secondo il Rapporto Censis 2016, dopo i Tg il mezzo di informazione più utilizzato è Facebook (!), mentre i motori di ricerca si impongono sui quotidiani cartacei; un’indagine del Reuters Institute (2015) evidenzia inoltre come in Italia i motori di ricerca siano di gran lunga la piattaforma privilegiata di accesso alle informazioni on line, con una percentuale molto superiore a quella registrata negli altri Paesi.
Occorre quindi che le amministrazioni pubbliche, come in parte stanno già facendo, abbraccino un nuovo modello di comunicazione istituzionale che, a partire dalla missione istituzionale, dagli obiettivi strategici e dal contesto di riferimento, individui gli strumenti (on line e off line) da adottare e i contenuti da veicolare, ponendosi come obiettivo non la visibilità ma la costruzione di una relazione. Compito difficile, specie in un contesto segnato da una forte sfiducia nelle istituzioni, salvo poche eccezioni (Rapporto Demos 2016), nel quale ci si fida solo di chi è più simile a noi stessi e si diffida delle fonti ufficiali (Edelman Trust Barometer 2016). Lungo questo percorso di ripensamento della comunicazione pubblica, si possono individuare sono almeno tre pietre miliari:
· Ripartire dall’ascolto. Si ritiene spesso di comunicare, quando invece si sta semplicemnte informando. Occorre ricentrare la comunicazione istituzionale sull’ascolto degli stakeholder interni ed esterni, costruendo la propria policy comunicativa in funzione delle esigenze emerse. Cosa non sanno i nostri pubblici e dovrebbero sapere? Cosa ci chiedono di conoscere? Cosa non ci dicono ma pensano? Non basta più la rassegna stampa, e nemmeno può essere risolutiva la customer satisfaction: bisogna valutare il posizionamento dell’ente in una cornice più generale, con gli strumenti di web monitoring e di analisi reputazionale, inglobando non solo i tradizionali interlocutori ma la platea più generale di stakeholder.
· Costruire un contatto costante con i pubblici di riferimento. Le PA gestiscono una quantità rilevante di contatti, non sempre valorizzati. Talvolta la relazione con l’utente è percepita come “apri e chiudi”, si esaurisce nell’adempimento amministrativo. Personalizzare la relazione significa capitalizzare il patrimonio di contatti a disposizione dell’ente promuovendo nuove forme di interazione, anche face to face e fuori dagli spazi istituzionali, per far conoscere le persone della PA (specie quando il profilo reputazionale è debole) e per supportare l’utente prima, durante e dopo l’erogazione del servizio.
· Rinegoziare i criteri di notiziabilità. Nella prassi giornalistica è ancora prevalente il modello del bad news, good news. La quotidianità della PA, invece, non è fatta soltanto di “eroi” e di “fannulloni” ma anche di soluzioni ai problemi, di innovazione e dedizione al lavoro. Un possibile punto di incontro, verso il quale il comunicatore può spingere, è il “giornalismo costruttivo”: l’idea di fondo è non limitarsi alla denuncia dei problemi ma contribuire alla ricerca delle soluzioni, mostrare come quei problemi possano essere superati, o cosa è stato fatto per superarli. Del resto, il compito di far parlare le istituzioni non è più delegabile unicamente ai giornalisti. La PA deve riuscire a raccontarsi in modo diverso, ritagliandosi un proprio spazio di visibilità, intesa non in termini di semplice awareness ma come spazio di apertura e di partecipazione dei cittadini.