Le big tech hanno eluso tasse per più di cento miliardi di dollari dal 2010 al 2019. Il dato lo rileva Fair Tax Mark, l’organizzazione britannica che certifica la buona condotta fiscale delle aziende: i “Silicon Six”, come vengono chiamati dalla stampa americana, sono Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft e Netflix. Ognuno di loro è riuscito a sfruttare tutti i cavilli che poteva del sistema di tassazione delle imprese per pagare meno tasse possibili. Il risultato è un bottino di tasse non pagate, quello che Fair Tax Mark indica come “tax gap”, di 100 miliardi di dollari nell’ultima decade.
La ricerca di Fair Tax Mark ha analizzato una mole impressionante di documenti, cioè le dichiarazioni fiscali delle sei aziende, approfondendo gli aspetti più tecnici dei bilanci e delle dichiarazioni fiscali. Tra quello che effettivamente le aziende hanno messo da parte nei loro bilanci in previsione di dover pagare le tasse e quanto invece hanno effettivamente pagato, al netto di detrazioni, incentivi, sconti e altri meccanismi di trasferimento contabile, è molto differente. Il gap tra le previsioni e gli effettivi pagamenti (le cash taxes, le tasse effettivamente liquidate) è arrivato per la precisione a 100,2 miliardi di dollari.
La maggior parte delle detrazioni secondo i ricercatori “quasi sicuramente avviene fuori dagli Usa”, soprattutto in paradisi fiscali come le isole Bermuda ma anche come l’Irlanda, il Lussemburgo e l’Olanda. «Quello che queste aziende hanno effettivamente pagato – dice Paul Monaghan, Ceo di Fair Tax Mark – e quanto invece avevano accantonato in previsione delle tasse è molto, molto meno».
Secondo il rapporto chi è riuscita a pagare molto meno di quello che aveva messo da parte è Amazon, che ha pagato il 24% di quello che aveva accantonato. Il secondo peggior pagatore di tasse è Facebook. Terzo, sempre secondo il rapporto, è Google, seguito da Netflix, poi da Apple e infine da Microsoft, che tra i sei è quella che ha pagato più tasse in proporzione agli accantonamenti. Una tasso di cash tax pari al 16,8%.
Pronta la replica di Google: “L’analisi fatta da Fair Tax Mark su come paghiamo le tasse ignora la realtà del complicato sistema fiscale internazionale attualmente in vigore e distorce i fatti documentati nei nostri archivi normativi – spiega una nota di BigG – Come altre multinazionali, paghiamo la stragrande maggioranza, oltre l’80%, della nostra imposta sul reddito nel paese di origine. Come abbiamo detto in precedenza, supportiamo fortemente il lavoro dell’Ocse per porre fine all’attuale incertezza e sviluppare nuovi principi fiscali”.
Immediata anche la replica di Amazon: “Le ipotesi del Fair Tax Mark Report non sono corrette. Amazon rappresenta circa l’1% delle vendite al dettaglio a livello globale, settore in cui principalmente operiamo e nel quale sono presenti concorrenti più grandi di Amazon. I margini di profitto delle vendite al dettaglio sono bassi e qualunque confronto con aziende tecnologiche, che generano margini di profitto operativi vicini al 50%, non è appropriato. L’aliquota fiscale effettiva globale dal 2010 al 2018 è stata mediamente del 24%, quindi Amazon non è stata né “dominante” né “non tassata”. I Governi scrivono le leggi fiscali e Amazon sta facendo proprio quello che i Governi incoraggiano le aziende a fare: pagare tutte le tasse dovute ed effettuare forti investimenti per la creazione di posti di lavoro e in infrastrutture. Investimenti e margini bassi, naturalmente, si traducono in un’aliquota fiscale effettiva più bassa. Amazon continua a investire in infrastrutture e innovazione, con 55 miliardi di euro investiti in tutta Europa dal 2010 e 95.000 posti di lavoro creati entro la fine di quest’anno. In Italia, Amazon ha investito oltre 1,6 miliardi di euro dal 2010 e impiega a tempo indeterminato oltre 6.500 persone”.