La navigazione eccessiva per uso personale dal pc aziendale legittima il licenziamento. È quanto afferma una sentenza della Corte di Cassazione, pubblicata da Sole24Ore, che confermato la decisione della Corte d’Appello su un ricorso intentato da un lavoratore contro la decisione del suo datore. Il secondo grado di giudizio aveva rilevato l’ammissione del licenziamento per un utilizzo sistematico del device aziendale per fini non inerenti all’attività lavorativa. Nel caso specifico sono finite nel mirino connessioni per circa 45 ore. Un volume di traffico considerato eccessivo dai giudici.
Il lavoratore si era appellato alla mancanza di un prospetto che indicasse il corretto utilizzo del pc aziendale, ma questa eccezione non ha trovato terreno fertile. La Cassazione non solo ha respinto il ricorso del dipendente, ma lo ha condannato anche al versamento del contributo unificato. Il caso crea un precedente importante, che rischia di far piovere sui tavoli dei giudici del lavoro una mole considerevole di cause.
“È agevole pronosticare la pubblicazione dei commenti più disparati che lamenteranno prepotenti invasioni nel regno della privacy dei dipendenti, invocando tutele statutarie e interventi del Garante. Ma la privacy, così come i controlli a distanza, nel caso di specie c’entrano poco o nulla – spiega Alessandro De Palma, avvocato giuslavorista dello studio Orsingher Ortu – Avvocati Associati specializzato diritto societario, della proprietà intellettuale, della tecnologia, dei media e delle telecomunicazioni -. La decisione della Suprema Corte pone le basi, in realtà, su un fondamento giuridico molto più banale e, nello stesso tempo, più inattaccabile: il contratto di lavoro è fonte di obbligazioni per entrambe le parti”.
Secondo l’esperto 45 ore di connessione Internet e migliaia di kbyte scaricate vogliono dire una sola cosa: “Quel dipendente, durante quelle 45 ore, non ha lavorato, o quanto meno non ha lavorato come avrebbe dovuto. È quindi venuto a mancare nell’adempimento del principale dei suoi obblighi, ovvero quello di rendere una prestazione lavorativa. Né più né meno – sottolinea De Palma – Seguendo lo stesso ragionamento, ma giungendo a risultati opposti, un celebre precedente del 2015 aveva ritenuto illegittimo il licenziamento in un caso in cui l’utilizzo personale della posta elettronica e della navigazione in internet non determina una significativa sottrazione di tempo all’attività lavorativa”.