Stiamo perdendo l’abitudine alla privacy. Anzi, sono stati i colossi di Internet a indurci, lentamente ma inesorabilmente, a spogliarci ogni giorno di più della nostra riservatezza. È la tesi di Alessandro Acquisti, docente all’Heinz College della Carnegie Mellon University di Pittsburgh (Pennsylvania) ed esperto di economia della privacy, in Italia per intervenire ad uno dei seminari sulla Internet policy organizzati da Telecom Italia.
Acquisti, cosa è cambiato dall’inizio dell’era web 2.0 nella protezione dei dati personali?
Non sono certo scomparse le nostre preoccupazioni sulla tutela della privacy, ma con il tempo si è abbassata la soglia di reazione degli utenti. Se 15 anni fa ci avessero chiesto se intendevamo condividere i nostri dati online con sconosciuti, o rivelare loro la nostra data di nascita, oppure segnalare quale canzone stavamo ascoltando, molto probabilmente la risposta sarebbe stata no. Oggi non è più così e questo è dovuto in particolare a una strategia dei social ribattezzata negli Usa ‘2 steps forward, 1 step backward’, ‘due passi avanti e uno indietro’.
Di cosa si tratta?
Ci sono stati diversi esempi negli ultimi 6 o 7 anni di iniziative dei giganti del web, relative alla privacy policy, prima annunciate, poi ritirate a seguito della sollevazione popolare e ripresentate qualche tempo dopo in un’altra forma. Penso a Beacon, il sistema di advertisement di Facebook lanciato nel 2007 che consentiva l’invio dei dati da siti esterni verso Fb allo scopo di targettizzare gli annunci pubblicitari. Diventato oggetto di una class action contro l’utilizzo, considerato improprio, dei dati personali, il sistema chiuse nel 2009 e il Ceo Mark Zuckerberg lo definì un errore. Ebbene: oggi l’advertisement su Facebook non è altro che una versione di Beacon ‘con gli steroidi’, ovvero ancora più invasiva. Di recente c’è stata la vicenda Instagram: lo scorso dicembre il sito di photo-sharing, acquistato proprio da Facebook, ha annunciato la possibilità di commercializzare le immagini degli utenti senza remunerare gli autori, ma, a seguito delle molte proteste, il giorno dopo ha fatto marcia indietro. Non mi sorprenderebbe se, fra 2 o 3 anni, le intenzioni di Instagram diventassero realtà.
Cosa ne pensa del referendum organizzato da Facebook fra gli utenti a seguito dell’intervento dell’Authority irlandese?
Quella vicenda è stata definita da alcuni commentatori americani ‘democracy theater’, ‘teatro della democrazia’. Peraltro quando Facebook intende realizzare un cambiamento o lo impone di default oppure obbliga in qualche modo l’utente a una scelta.
Pensa quindi a un futuro senza più privacy?
Alla Carnegie Mellon io e un collega, Ralph Gross, abbiamo fatto di recente uno studio: abbiamo messo un software di riconoscimento facciale, dell’azienda PittPatt, su un normale computer portatile con webcam. È stato in grado di identificare il 30% degli studenti che passavano di lì associando i loro volti alle immagini dei profili Facebook. Tutto questo pone un dilemma etico.
Perché?
Facciamo un esempio: io so, in base all’analisi dei tuoi dati personali in mio possesso, che tu credi fortemente in una causa, per esempio sei democratico o repubblicano, oppure pro-choice o pro-life, e sono perciò consapevole che mandandoti un certo tipo di messaggio sono in grado di influenzarti. È eticamente giusto o sbagliato farlo? La maggioranza delle persone risponderà che è giusto. Ma se cambiano i parametri, e decido di utilizzare le informazioni in mio possesso per convincerti a comprare un prodotto? E se è un prodotto in cui non credo, ma sono pagato per venderlo, questo è economicamente efficiente ma anche poco etico? Le risposte sono diverse: certe azioni sono legali ma non etiche, altre economicamente efficienti ma legalmente dubbie. Di fatto azioni di questo tipo tendono tutte a limitare la libertà dell’individuo.
Dunque la democrazia su Internet finisce dove inizia la gestione dei dati personali degli utenti?
Il dibattito sulla privacy sembra sempre più concentrarsi sugli aspetti economici: quali sono i benefici per gli utenti che rivelano i propri dati e quali sono invece i costi quando la loro riservatezza viene violata. Ma ci sono anche aspetti della privacy non quantificabili: la privacy come autonomia, la privacy come libertà. La conoscenza dei nostri dati personali dà agli altri un forte potere su di noi. Rischiamo di essere influenzati sulle nostre decisioni di consumo, su aspetti importanti della vita sociale, su aspetti politici. Da sempre la pubblicità ha cercato di influenzare l’individuo, ma attraverso i social media la capacità di manipolare le decisioni dell’utente continuerà ad aumentare e sarà invisibile, cioè non ce ne renderemo nemmeno conto. È uno degli aspetti più preoccupanti per il futuro.